Il film della settimana: “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi

Giona A. Nazzaro

Claudio Giovannesi si era fatto notare con Fratelli d’Italia, un documentario incentrato su vite ai margini. Periferia dura, cattiva. Un pugno nello stomaco che evidenziava uno sguardo potente, senza compromessi.

Era dunque con grande curiosità che si aspettava Giovannesi alla prova del secondo lungometraggio, dopo l’ancora acerbo La casa sulle nuvole. Alì ha gli occhi azzurri (presentato in competizione nel corso della settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma), il cui unico neo risiede nel titolo (se ne poteva francamente trovare uno meno ammiccante…), è un melodramma di strada potente. Storie di vite violente, calate nella realtà di Ostia, dove nell’arco di una settimana seguiamo le cose della vita di Nader, adolescente di origini egiziane, nato e cresciuto a Roma.

Legato all’amico Stefano, Nader parla in romanesco strettissimo, si sbatte tutti in giorni ai margini della legalità e si dibatte ferocemente fra ciò che ancora pulsa della sue origini egiziane e la voglia di una vita che sembra invece allontanarsi ogni giorno di più. Sette giorni in cui Nader prova a far accettare ai suoi genitori la sua ragazza italiana figlia di un semi boss; sette giorni in cui Nader tenta di scappare da una banda di romeni che vogliono dargli qualche coltellata per saldare una rissa in discoteca; sette giorni in cui Nader quasi ammazza Stefano perché il suo amico si è innamorato di sua sorella. Ed è una grande intuizione di regia quella di far rientrare le origini egiziane e musulmane, verso le quali la madre tenta in tutti i modi di riavvicinarlo, attraverso un rigurigito di maschilismo feroce e primordiale. Come dire che non c’è (ancora…) un principio di integrazione ma sempre e soltanto un principio di opposizione.

Giovannesi dirige il suo film con uno stile potente e ruvido. Il linguaggio dei protagonisti, nudo e scabro, s’avvolge intorno alle immagini evocate dallo sguardo di Daniele Ciprì (da poco laureatosi regista con E’ stato il figlio visto al Festival di Venezia).
Certo, il richiamo a Pasolini è inevitabile, ma Giovannesi non si trincera dietro un nome altisonante e si sporca le mani con una materia scomoda nei confronti della quale non commette il torto di calare dall’alto soluzioni preconfezionate o ricorrendo a soluzioni ideologiche scontate.

Giovannesi si piazza sul campo. Resta sul campo insieme ai suoi corpi. E compie un piccolo miracolo di cinema, riuscendo a far vivere filmicamente un universo che rispetto al nostro campo visivo è solo spostato di qualche grado.
E soprattutto Giovannesi evita la trappola del naturalismo. Il suo Alì vive calato in una dimensione paranoica da film noir. E come per gli antieroi del cinema noir classico, la sua vita è scandita dai minuti che scorrono, mentre lui tenta di sfuggire all’inevitabile resa dei conti che l’attende.

Come in un fuori orario a Ostia, la vita di Alì gira a vuoto creando una vertigine dalla quale il suo sguardo distilla una percezione del reale acuta e violenta, rendendo presente ciò che le immagini ufficiali occultano.
Il senso di un cinema urgente e necessario sta tutto in questa pratica filmica che diventa una posizione etica.
Claudio Giovannesi: un nome da tenere d’occhio con grande attenzione.

(14 novembre 2012)



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