Il film della settimana: “Argo” di Ben Affleck

Giona A. Nazzaro

Si dovrebbe imparare a fare cinema politico dagli americani. E non solo perché comprendono istintivamente dove poggia il punto fra racconto e morale del raccontare stesso, ma perché il loro cinema, fondato su una morale del fare, meglio di qualunque altra cinematografia riesce a restituire il senso e la progettualità di un altro fare. E soprattutto, perché essendo calati in un’etica pragmatista nella quale il riconoscimento “A good Job!”, un buon lavoro, è la massima onorificenza auspicabile (la serie 24 è indicativa in questo senso), offre la possibilità di ipotizzare una sorta di congiungimento virtuoso fra la bellezza e la necessità di un lavoro, perché utile, e l’efficacia stessa di questo come metro di una spettacolarità a misura di sguardo.

Per intenderci, il maggior politico del cinema americano non può che essere Howard Hawks e non è un caso che un forte oppositore del sistema come John Carpenter si sia sempre dichiarato hawksiano.

Si dovrebbe quindi imparare a fare cinema politico dagli americani perché questo poggia eminentemente sul gesto e non sulla parola, dove il gesto è il paradigma di una possibilità di socializzazione. Le rivoluzioni si fanno e non si parlano. Per dirla con Jean-Marie Straub, per un cineasta sbagliare un inquadratura (fare…) è come per un politico sbagliare politica.

Non è un caso, dunque, che il cinema americano abbia sempre come sottotesto la nascita di una nazione (e che Toni D’Angela abbia intitolato il suo studio sul western proprio “Western – Una storia dell’Occidente”).

Il cinema americano è politico perché è un cinema plurale calato sempre nell’oggi che attraverso il fare cinema s’interroga sui gesti necessari per fondare un’appartenenza, una comunità. Chiedere a John Ford per conferme.
Sarebbe pertanto ingenuo operare delle distinzioni in seno al cinema statunitense tentando di individuarvi la politica lì dove sono in evidenza contenuti “politici” e allontanando lo sguardo quando apparentemente si parla “d’altro”.

Argo di Ben Affleck, in questo senso, è un film interessante perché pone la questione dell’immaginario collettivo al centro non solo dell’agire politico ma come elemento imprescindibile per riorientarsi nel mondo.

Affleck, dunque, interpreta un agente della Cia incaricato di tirare fuori da Teheran dei diplomatici statunitensi rifugiatisi miracolosamente nella residenza privata dell’ambasciatore del Canada nei giorni immediatamente seguenti la presa del potere khomeinista. Vedendo per caso alla televisione un sequel de Il pianeta delle scimmie (se non andiamo errati, si tratta di Battle for the Planet of the Apes) l’uomo intuisce che la migliore copertura sotto la quale operare è quella di una finta troupe cinematografica hollywoodiana.

Dunque, con gli agganci del caso, mette su una falsa produzione, organizza falsi casting e altrettanto false conferenze stampa ma con tanto di numeri di telefono veri, sceneggiature dettagliatissime, piano di lavorazione, budget e, soprattutto, storyboard. Uno dei momenti più interessanti del film è senz’altro il coaching che l’agente fa agli addetti dell’ambasciata che, non a caso, faticano a entrare nei loro ruoli “cinematografici”. Affinché il falso sia vero, il vero deve essere, necessariamente, falso.

È ben noto che Guerre stellari di George Lucas sia stato progettato originariamente dal regista come un’allegoria della guerra del Vietnam e che lo stesso Francis Coppola abbia iniziato a pensare a Apocalypse Now ragionando con l’amico George di morte nera e impero.

La crisi degli ostaggi statunitensi all’indomani della presa del potere di Khomeini in Iran avviene sullo sfondo del successo planetario di Guerre stellari. E Affleck è molto acuto nel mettere in scena, attraverso piccoli indizi, il terremoto sociale e psichico provocato dal film di Lucas nell’immaginario collettivo dell’epoca i cui effetti sono evidenti e presenti ancora oggi. Piuttosto che lamentarsi delle solite “americanate”, ci sarebbe stato bisogno all’epoca di visionari come Marshall McLuhan o di intellettuali come Alberto Abruzzese per raccontarci in tempo reale cosa stava accadendo alla nostra percezione del mondo.

Sia come sia, il protagonista di Argo, interpretato dallo stesso Affleck, intuisce che qualcosa è cambiato nelle modalità di immaginare il mondo. Cadono le categorie umanitarie degli insegnanti nel terzo mondo, una ipotesi di copertura per favorire la fuga, e avanza l’irresistibile fascino del fare un film. Occhio però: non si tratta dell’abusata capacità di sedurre della polvere di stelle. Non si tratta di fare un film e basta. No: si tratta di fare un film che evochi altri mondi. Ossia una possibilità, una differenza. Entrambe contenute come promesse nella fantascienza e nel fantastico. Ma non una semplice fuga escapista. No: una fuga in avanti. Un riorganizzare il mondo. Costruire una nazione, ma meglio. D’altronde: cos’altro racconta Avatar, il maggiore film politico degli ultimi anni? La nascita di una nazione.

Ed è dunque lavorando con questa promessa, più che con la copertura, che il personaggio di Affleck riesce a mimetizzarsi nella società iraniana che ancora credeva alla promessa palingenetica dei teocrati. Perché la sua promessa è sostanzialmente identica a quella degli ayatollah. O meglio: entrambe sono alimentate dalla medesima speranza. Ed è un autentico colpo di genio, il momento in cui il film da fare (Argo, appunto), attraverso i disegni dello storyboard, diventa lo specchio rovesciato della situazione iraniana posta invece all’inizio del film a ridosso dei titoli di testa. All’opposto del medesimo spettro abbiamo dunque la situazione politica oggettiva, la premessa della rivoluzione khomeinista, e dall’altro il suo racconto come epica, condivisione di un film che non si farà. Una promessa di un domani migliore.

In quel momento il guardiano della rivoluzione e il diplomatico che si finge executive hollywoodiano parlano il medesimo linguaggio: entrambi sognano un altro mondo. Per questo motivo non si può parlare d’inganno: perché in quel momento i due sono identici nella loro speranza di un altrove, di una possibilità – che sarà negata comunque dalla storia – ma che possono sognare come cinema. Il cinema sostituisce al loro sguardo un mondo che si accorda con i loro desideri. L’inganno, dunque, in senso stretto, verte sulla torsione di questo desiderio di cinema, che è soprattutto un desiderio di rappresentazione. Di esserci (ancora).
Se dunque il mondo non può essere detto, può se non altro essere messo in scena come cinema. E nel cinema abitiamo tutti.

Il valore politico di Argo, dunque, risiede non nella rivelazione di una storia incredibile, cosa comunque non trascurabile, quanto nel mettere in scena il lavoro necessario per creare e agire le strutture dell’immaginario collettivo che si manifestano come principio di realtà e, soprattutto, di individuazione. Se a tutto questo si aggiunge il montaggio parallelo più emozionante visto al cinema dai tempi del finale di Amabili resti di Peter Jackson, il gioco è fatto.

(31 ottobre 2012)



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