IL FILM DELLA SETTIMANA – “Blue Jasmine” di Woody Allen

Giona A. Nazzaro

Nonostante il persistente unanimismo critico che circonda il lavoro di Woody Allen, resta il fatto che il nostro negli ultimi anni si sia limitato sostanzialmente a fare il verso a se stesso.

Lontani i tempi quando Allen, al ritmo di un titolo all’anno, film dopo film riusciva a mettere in discussione il suo cinema con film duri come Mariti e mogli, lievi e sognanti come Tutti dicono I Love You e sottili e inquietanti come Harry a pezzi. Il regista se da un lato ha dato prova di una straordinaria prolificità, dall’altro ha evidenziato anche una certa facilità di composizione e scrittura che ha raggiunto un disastroso nadir qualitativo nel pessimo To Rome with Love.

Autore che sembrava ormai saldamente immesso nelle coordinate di un gusto medio borghese, cui offrire innocue sollecitazioni culturali (il caso Midnight in Paris), e che ammetteva che Basta che funzioni, illudendosi che Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni mentre si gira per le capitali d’Europa, magari in compagnia di Vicky Cristina Barcelona, Allen pareva essere completamente asservito all’immagine nutrita di lui dal suo pubblico adorante (e acritico che nell’immagine di Allen ama proiettare se stesso…).

Necessario però osservare che è proprio il Woody Allen “quantitativo” che convince maggiormente critici non superficiali come Enrico Ghezzi e Bernardo Bertolucci, intrigati da questa deriva da autentico professional hollywoodiano che sembra invece, stando all’opinione dominante, lavorare contro la dimensione autoriale del nostro. Come se Allen avesse scoperto, attraverso questo suo costante superlavoro, la dimensione di un gesto filmico assoluto, puro, espressione di un pensiero in azione che necessita del set per manifestarsi compiutamente.

Da questo punto di vista, Blue Jasmine, il film di Allen più convincente dai tempi di Match Point, che però era un remake di Crimini e misfatti, sembrerebbe da un lato confermare la teoria “quantitativa”, ossia il filmare come atto sufficiente a se stesso, e dall’altro insinuare che dopo la débâcle critica di To Rome With Love, il nostro avesse un bisogno disperato di una nuova credibilità artistica e po(i)etica.

Blue Jasmine, anticipando una conclusione, conduce a vette di dolore inesplorato, il pessimismo cechoviano di Allen. La parabola del personaggio di Cate Blanchett, che si può leggere anche come commento alla crisi finanziaria e ai valori che l’hanno provocata, personaggio che seguiamo attraverso la pena di quelli che sembrano essere i suoi ultimi giorni, è tra le più convincenti messe in scena da Allen negli ultimi anni. La più autentica, la più forte, la più sorprendente.
Conservando come unità di misura stretta inquadrature di stampo classico, verrebbe da definirle “cukoriane” per come sono scolpite nello spazio e calate negli ambienti, il regista lavora con una complicità inaudita con i suoi interpreti; inaudita anche per un navigato regista d’attori del suo stampo.

Nessun inutile orpello ostacola la messa in scena. Il jazz delle origini che da sempre accompagna come un marchio di fabbrica i film del nostro, fa spazio a tratti a lamenti blues degli anni Venti (o Trenta) che squarciano la tela delle abitudini degli ultimi decenni di cinema alleniano. Il dolore si palesa senza compromessi o le scorciatoie ciniche cui ci aveva abituato il regista. Amarezza vera, che questa volta evita la banale chiamata in correità del “tanto siamo tutti colpevoli”. No. Qualcuno è più colpevole degli altri. E tanto vale dirlo.

L’europea ma operaia San Francisco sostituisce New York e le capitali europee, solo evocate, permettendo così ad Allen di ritrovare una realtà americana da troppo tempo assente dal cinema del nostro.

Esemplare, in questo senso, la scelta del casting che recupera da un lato la Sally Hawkins di Mike Leigh e di Made in Dagenham (ci rifiutiamo di citare il pessimo titolo italiano), nel ruolo della sorella della protagonista, e soprattutto osa sdoganare lo scorrettissimo Andrew Dice Clay (quello de Le avventure di Ford Fairlane) affiancandolo a un Bobby Cannavale che conferma la predilezione alleniana per i caratteristi italoamericani.
Senza contare la partecipazione di Louis C.K., stand-up comedian titolare della serie Louie che con il poco spazio a sua disposizione si ritaglia un personaggio davvero esilarante.

Tocca però a Cate Blanchett reggere le fila di tutto, confrontandosi con un sublime Alec Baldwin. Alle prese con un ruolo che avrebbe potuto dare vita a una serie di insopportabili manierismi, l’attrice offre una performance straziante e sconvolgente per la straordinaria capacità di conservare entro i limiti della credibilità una donna il cui spettro sentimentale oscilla fra la negazione più disperata e l’idealismo più irreale e ingenuo. Alle prese con una dignità che ha sofferto aggressioni durissime, la Blanchett si muove nelle inquadrature come una fiera spaurita, ferita, sacrificando la propria bellezza ai nervi che affiorano come vulnerabilissimi cavi d’acciaio.

La macchina da presa di Woody Allen, servita da Javier Aguirresarobe, bracca la protagonista con una tenerezza feroce degna dei grandi hollywoodiani: il già citato Cukor, ma si potrebbe menzionare anche Mitchell Leisen o Frank Borzage.
Stretta progressivamente d’assedio da una realtà che non comprende più e che la rifiuta, la protagonista, come una donna di Cassavetes, si trova progressivamente esiliata dal mondo e da se stessa.

Dolente commento sulla condizione della donna nella società dell’immagine e dell’apparire, Blue Jasmine è il film che francamente non ci saremmo più aspettati da Woody Allen. Un film che se anche non ci riconcilia del tutto con un autore una volta amatissimo, ci induce a guardare con fiducia al suo prossimo film che ovviamente è dietro l’angolo.

(29 novembre 2013)



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