Il film della settimana: “Carlos” di Olivier Assayas

Giona A. Nazzaro



Per anni Olivier Assayas è stato un cineasta seguito quasi esclusivamente dalle riviste specializzate. Affermatosi a Venezia grazie a Desordre, suo film d’esordio, il regista francese, di origini ungheresi, che parla tra l’altro fluentemente l’italiano, è stato sempre un affare quasi segreto tra i cinefili italiani e non solo.

Legato a un doppio filo al cinema del post-nouvelle vague, Assayas nel corso degli anni si è rivelato cineasta in grado di mettersi profondamente in discussione e di sfuggire con grande abilità all’etichetta limitante del cosiddetto cinema di qualità francese.

Ex critico dei Cahiers du cinema, ex sceneggiatore, attento rilevatore del nuovo, con una carriera di fondista che gli ha permesso di esplorare con ambiti cinematograficamente distanti tra loro, basti pensare al thriller futurista cyberpunk Demonlover o al dramma adolescenziale L’eau froide, il suo capolavoro, Assayas l’anno scorso a Cannes, da par suo, ha messo in crisi il protocollo festivaliero presentando fuori concorso, e non senza polemiche, il fluviale Carlos, ritratto del famigerato terrorista realizzato per la televisione.

A causa della sua natura televisiva, Carlos era stato destinato al fuori concorso e probabilmente,a causa della sua natura fluviale, cinque ore abbondanti, visto da un numero non adeguato di addetti ai lavori.
In conferenza stampa il regista rilanciava le sue ragioni e contestava fermamente la chiusura mentale dei selezionatori, senza contare che per la stampa francese si trattava del miglior film del festival.
A fronte del successo ottenuto dal film, e forse per fare ammenda di una scelta infelice, Olivier Assayas è stato invitato quest’anno in giuria a Cannes mentre in Italia Sky trasmette l’ultima puntata di Carlos.

Con l’eccezione di Romanzo criminale di Stefano Sollima, il miglior serial televisivo italiano da tempi immemorabili, Carlos è l’ennesima dimostrazione che molto del cinema migliore degli ultimi anni viene prodotto per la televisione.
Assayas ricordava con grande tranquillità come non avesse affatto modificato il proprio modo di lavorare per Carlos, tant’è vero che in colonna sonora figurano anche suoi amori musicali come i Wire e i Dead Boys.

Oltre a essere uno dei ritratti più attendibili dei mutamenti politici ed epocali che l’Europa ha attraversato prima della caduta del muro e dopo, Carlos è soprattutto una straordinaria lezione di cinema. Il racconto, velocissimo e privo di tempi cosiddetti morti, si inserisce perfettamente nella poetica del regista, che osserva da sempre il divenire dei conflitti, intellettuali, politici e affettivi, come una sorta di dolorosa educazione sentimentale.

Carlos è il racconto di una macchina celibe stritolata nei meccanismi della storia che pensava di potere manipolare. La solitudine di un assassino la cui parabola da idealista terzomondista e filopalestinese lo porta a diventare un mercenario al soldo del miglior offerente che continua a inseguire come una chimera l’utopia della rivoluzione.
Assayas con rigore compone un poema rock e fenomenologico. Non esprime un giudizio. Non condanna. Non assolve. Osserva e racconta in basa a una documentazione serrata raccolta nel corso di lunghi anni di ricerca.

Il risultato è un film che, ancora una volta, conferma Olivier Assayas come uno dei cineasti più appassionanti e rigorosi del cinema contemporaneo, che si è trovato a cavallo di ciò che è stato e ciò che sarà.
Resta da vedere come lo sguardo di Assayas possa influenzare la giuria del 64esimo festival di Cannes. Ma siamo sicuri che la sua impronta sarà ben percepibile nel verdetto finale.

(11 maggio 2011)

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