Il film della settimana: “Cosmopolis” di David Cronenberg
Giona A. Nazzaro
, da Cannes
Un corpo chiuso in una limo stretch. Una di quelle che guida Edith Scob in Holy Motors di Leos Carax, per intenderci. Un ventre asettico protegge un broker dell’altissima finanza. Uno di quelli in grado di calcolare il tempo in base all’oscillazione del valore del denaro. Uno che determina il futuro decidendo di vendere o comprare delle azioni. Intuizione altissima di casting, dunque, scegliere il vituperato Robert Pattinson di “twilightiana” fama per interpretare Eric Packer nell’adattamento cinematografico che David Cronenberg ha immaginato per il Cosmopolis di Don DeLilllo. Pallido, laconico, distante, Packer ha organizzato un intero ecosistema nel ventre della sua macchina dalla quale si allontana solo per stacchi netti di montaggio. L’automobile scivola orizzontalmente ma immobile nel traffico. Intorno infiamma la rivolta anticapitalista ma Packer non se cura. La sua prostata è asimmetrica. Anche la sua percezione del mondo. E pure la nostra.
Con uno splendido movimento a ritroso, Cronenberg, in forme ancora più radicali che in A Dangerous Method, torna indietro verso le origini sperimentali e algidamente canadesi del suo cinema. Cosmopolis è un film sublimemente inerte. Statico. Che esemplifica, senza ombra di dubbio, l’idea baziniana del cinema impuro riguardo agli adattamenti letterari: non a caso Cronenberg è come se tenesse separati su due piani il testo, quasi letterale del romanzo delilliano, e il suo lavoro filmico. Ovviamente, un’illusione, perché il film porta alle estreme conseguenze la riflessione che il cinema può e deve fare nei confronti della parola scritta. Il film è sempre altro, la differenza nei confronti della parola scritta. Lo scarto, il resto. E la distanza fra testo e immagine deve documentare lo scarto che esiste tra i due elementi.
Tutto Cosmopolis è come sigillato in una camera iperbarica ambient. La vita dei protagonisti è osservata con la stessa precisione con la quale Packer segue i movimenti in borsa. E se il tempo è il luogo dove si origina la narrazione lineare, grazie a un movimento di rispecchiamento virale, è il denaro stesso a creare un altro tempo a sua immagine e somiglianza. Ed è esattamente a questo tempo altro che diventa misurabile come circuitazione e movimento del denaro che Cronenberg oppone un film provocatoriamente statico nel quale la parola sembra come esistere su un piano separato dalle immagini. Qualcosa ha smesso di funzionare e ora vediamo come NON funziona, provando tutto il disagio possibile di questo meccanismo che ha cessato di essere riconoscibile. Se il tempo è un prodotto collaterale del denaro, di conseguenza anche la percezione di esso non può che essere affetta da una mutazione (virale, cancerogena) che riscrive il nostro principio d’individuazione.
Packer scivola immobile, ossimoro inevitabile, attraverso un reale che si manifesta come un parto convulso: il sorgere del nuovo dalle infiammazioni e dalle lacerazioni della cosmesi sociale.
Cronenberg, con una progressione implacabile, osserva il progressivo deteriorarsi dell’equilibrio igienizzato dell’interno della limo di Packer. Poco alla volta l’automobile è rivelata nella sua realtà di corpo fisico che inizia a non smaltire più i rifiuti. E geniale è la scena nella quale Packer è sorpreso mentre urina in auto: come due dead ringers inseparabili, Packer e la sua auto vivono in una simbiosi merceologica in attesa di un crash che tarda a manifestarsi anche se i suoi segni sono ovunque.
Cronenberg mette in scena il tempo della grande crisi finanziaria come una pandemia implacabile. Ma con lo scarto caratteristico solo dei più grandi visionari, evita il discorso sociologico per concentrarsi sulla propagazione virale dell’idea della crisi. Cronenberg filma, con precisione documentaria, l’oscillare del principio di realtà sottoposto alle scosse sismiche delle informazioni finanziarie che determinano la vita di coloro che non muovono azioni e titoli da un laptop. Come una radiografia del terrore provocato dal perdere la propria vita, il film di Cronenberg mette in scena una metastasi di una paura priva di un correlato oggettivo immediatamente esperibile. Come si diceva nel primo fumetto di Rank Xerox (quando si scriveva ancora così: There’s a Fear in the Western World…).
Per intenderci: provate a immaginare un film che riesca a catturare visivamente, magari come un’oscillazione cromatica, la paura che i titoli dei quotidiani legati allo spread provocano nella psiche di chi di finanza non ha che un’idea molto vaga. Provate a immaginare la realtà cui dà vita un pensiero stretto dall’angoscia di un terrore materiale e alle modificazioni ambientali che questa malattia del principio d’individuazione potrebbe causare. Come un cancro dell’immaginario che in grado di infettare letteralmente, mcluhaniamente, il resto della rete neuronale dell’accesso alla banca dati del mondo. Cosmopolis, in questo senso, è la radicalizzazione di un discorso intorno alla metastasi del reale anticipato dal regista ai tempi di Videodrome.
La domanda fondante, infatti, di Cosmopolis è cosa resta del tempo delle relazioni tra gli uomini quando non c’è più il tempo stesso eroso dalla (corto)circuitazione della valuta unica del denaro. Se il denaro crea il tempo, cosa diventa del tempo quando il denaro non ci sarà più? E non è un caso che Packer prima uccida il suo capo della sicurezza e poi si spari nella mano per ritrovarsi come corpo. Cosmopolis è anche la necessità di ripensare un’alfabetizzazione del corpo e della percezione che ricollochi il nostro corpo in un’altra relazione con se stesso e con gli altri. Probabilmente Cosmopolis è il film che più radicalmente ha immaginato la fine della storia come fine delle relazioni economiche vigenti e, intuizione sublime, ha fatto diventare questo tempo ipotetico il tempo di un racconto filmico sospeso, come bloccato, immobile. Perché, di fatto, il mondo si ferma oggi.
(26 maggio 2012)
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