Il film della settimana: “Diaz” di Daniele Vicari

Giona A. Nazzaro

Diaz è un film importante. Per varie ragioni. Ma soprattutto perché, di fronte a una tragedia come lo scandalo della scuola Diaz e della caserma Bolzaneto, Vicari non ha commesso l’errore solito dei registi bene intenzionati di rinunciare al cinema per amore di polemica.

Diaz è un film che funziona come una micidiale macchina spettacolare. Come il più spietato ed efficace dei blockbuster hollywoodiani. Daniele Vicari non vuole predicare ai già convertiti e crogiolarsi al calduccio delle opinioni condivise. No. Con Diaz il regista ha affrontato una pagina nerissima della storia italiana recente per raccontarla come cinema. E, al di là dell’ineludibile portata politica del film, Diaz convince proprio in quanto racconto cinematografico. Come cinema.

Daniele Vicari ci risparmia il solito ricatto che suona più o meno come “il mio film ti deve piacere perché il mio film racconta una storia importante”. Vicari si tuffa nel cuore dell’orrore ben consapevole che la sua missione è, soprattutto, realizzare un film. Un ottimo film che vanta il contributo di professionisti del valore di Gherardo Gossi e Teho Teardo. Questo è l’unico risarcimento e contributo che un film che aspira a essere politico può offrire alla storia di quei giorni del G8 di Genova.

Certo, Vicari ha le sue idee su come si sono svolti i fatti. Non potrebbe essere diversamente. Rispetto a essi, però, non si pone in una posizione di subalternità. Li organizza drammaticamente. Compone un racconto corale e potente. Organizza un caleidoscopio di voci che risuonano in tedesco, inglese, francese e spagnolo. La tessitura dei fatti s’intreccia sensuale come una serie di campionamenti di field recording. L’episodio centrale, incentrato sul lancio di una bottiglietta, si espande, si dilata come un refrain visivo.

Vicari mette mano a un armamentario visivo e spettacolare che non si limita a citare il Costa-Gavras degli anni Settanta o il cinema di Elio Petri (il ritratto degli uomini della Questura) ma gioca a tutto campo ricordando La haine ma anche atmosfere carpenteriane e persino certi rimandi nei quali s’intreccia il ricordo dei centurioni fleischeriani e dei guerrieri del Bronx di Castellari.

La coincidenza distributiva che ha permesso di vedere a distanza ragionevolmente diversificata tre opere molto diverse tra loro come Diaz, Acab e Romanzo di una strage, rilancia una questione critica spinosa che pone da sempre problema. Ossia il cinema non è il telegiornale e la libertà creativa non può e non deve essere soggetta a degli a priori ideologici o contenutistici: nel cinema la verità è quella dei 24 fotogrammi al secondo. Ed è il perimetro dell’inquadratura a dire della giustezza della posizione politica di un autore, non il suo discorso. Le sue dichiarazioni di principio.

Giordana, Sollima e Vicari hanno tutti scelto il rischio del cinema piuttosto che il conforto delle posizioni condivise. Diaz, in questo senso, offre un quadro spietato di un paese e delle connivenze che esistono ai vertici delle forze dell’ordine, ma le mette in scena non come un agitprop fuori tempo massimo, ma come un cineasta che deve rendere conto di questioni come inquadratura, montaggio e movimenti di macchina. Senza per questo sacrificare la complessità delle problematiche in campo (che non vuole dire affatto non scontentare nessuno).

Vicari con Diaz si è assunto un rischio enorme. Rispetto alla miriade di punti di vista e immagini che il G8 ha prodotto e che fortunatamente hanno immediatamente messo in discussione le verità ufficiali, il suo film è un punto di vista individuale e, anche se consapevole del resto delle immagini che stanno ai margini delle inquadrature del suo film, non potrà mai rendere giustizia alla pluralità esterna che contribuisce alla stessa ricchezza del suo lavoro. Quindi Vicari radicalizza il suo approccio aperto concedendosi però anche il piacere di una serie di trovate dal forte sapore avventuroso. Cosa non di poco conto, considerando l’incubo legale che deve essere stato montare una produzione di questo tipo (ma per fortuna la visione non suggerisce mai che il montaggio sia stato effettuato con gli avvocati a guardare sopra le spalle del montatore…).

Già perché in Italia, raccontare la polizia (o la chiesa), fuori dagli schemi dei Distretti di polizia o dei don Matteo, è ancora una missione impossibile. Chiedetelo a Sollima, per averne un’idea. Così, mentre negli Stati Uniti serie televisive come The Wire o The Shield mettono in scena poliziotti marci sino al midollo calati in un mondo cupo e violento, dalle nostre parti, dove non esiste il reato di tortura, insinuare dubbi sulla limpidezza delle nostre uniformi, fosse anche solo nello spazio di un singolo film, è ancora un’impresa tabù (meglio una roba collaborazionista come Sbirri che imita i reality show). A ben vedere l’ultima volta in cui in Italia si è prodotto un discorso fuori dagli schemi sulla polizia è stato durante la breve stagione del poliziottesco, bollato però all’epoca frettolosamente come fascista.

Vicari, e lo si vede bene, ha assimilato e rielaborato moltissimo del miglior cinema (e della migliore televisione) degli ultimi anni. Ed è questa sua consapevolezza formale a fare la forza politica del suo film. Perché Diaz si cala in un contesto audiovisivo contaminato che inevitabilmente mette in discussione i formati e i linguaggi acquisiti. Ed è qui che scatta la portata di politica del film di Vicari: far scontrare e interagire linguaggi e velocità diverse per produrre un cinema spettacolare che non si autoassolva isolandosi nei ghetti di un cinema per nulla eccitante e divertente.

Diaz, infatti, dimostra che fare cinema in Italia è ancora possibile. Un cinema politico e divertente (nel senso proprio di piacere della visione, per quanto atroce come nel caso in esame…), nel senso di un cinema che ti ripaga del tempo investito. Insomma: c’è vita, se si vuole, al di là del recinto della neo-commedia; è possibile confezionare un prodotto in grado di aspirare a conquistarsi il proprio spazio nelle sale di tutto il mondo, e non solo quello delle sempre meno ospitali sale dello stivale.

Diaz è un film potente che lascerà il segno. E speriamo che questo segno sia interpretato nella maniera più corretta da coloro che il cinema lo producono. Senza contare che è un contributo dal valore inestimabile alla causa della verità e della giustizia. Cinema, insomma.

(10 aprile 2012)



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