Il film della settimana: “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson
Giona A. Nazzaro
In Anima persa di Dino Risi, uno dei massimi capolavori del regista milanese ma sconfortante fallimento economico all’epoca della sua prima uscita, Vittorio Gassman pronuncia, ferito da una malinconia profondissima, una battuta feroce (la riportiamo a memoria): “Se non ci fosse stata quell’infamia dell’unità d’Italia faremmo ancora parte del glorioso impero asburgico”.
Fabio Stolz, questo il nome del personaggio interpretato da Gassman, è un orgoglioso (stolz, appunto) rappresentante di un’aristocrazia nera, antistorica, avvinghiata come un’edera a un’idea di mondo tramontata nel sangue e che nei suoi riti quotidiani s’illude di preservare la vita che li ha travolti e sorpassati.
Fra i numerosi ospiti del Grand Budapest Hotel, operetta allegorica sulla fine della storia, non si fa fatica a immaginare Fabio Stolz, anche se tutti gli attori di questa ronde di leggiadria ophülsiana sono portatori di un disincanto che lo schizofrenico ingegnere risiano ignora, preferendo egli indossare la maschera della negazione e della morte.
Nelle parole di William Gibson, l’Europa è un museo morto. Wes Anderson che nel corso della sua carriera cinematografica, oscillante fra epifanie e detour manieristi, ha creato alcuni dei cinemondi più originali e credibili degli ultimi decenni, giunge con Grand Budapest Hotel a una sorprendente summa formale, poetica e politica.
Abituato a disegnare e a immaginare tutti i suoi film come dei veri e propri storyboard animati, cosa che esemplifica da un lato un’inventiva addirittura mélièsiana e dall’altro il rischio di un ipercontrollo di matrice kubrickiana, Anderson, dopo Moonrise Kingdom gentile apologo manierista sul rifiuto del mondo inteso come luogo di corruzione e perdita, con Grand Budapest Hotel esplora un mondo giunto al suo crepuscolo collocandolo in una prospettiva storica apparentemente atemporale ma in realtà d’inappuntabile precisione.
Il Grand Budapest Hotel si raggiunge con una funivia. Situato sulla vetta di una montagna altissima, come un sanatorio che avrebbe potuto immaginare Thomas Mann, accoglie un’umanità composta da esponenti delle famiglie aristocratiche più ricche di quella che si suppone sia ancora l’Europa.
L’hotel, una volta luogo di aggregazione e crocevia di destini e amori, langue ormai abbandonato, anche se l’affetto di pochi ospiti lo conserva in attività. Certo oggi il Grand Budapest Hotel assomiglia più a un dinosauro turistico sovietico decaduto avendo il tempo cancellato ormai le tracce dell’effervescenza austroungarica che fu.
Il luogo, in omaggio alle convenzioni del romanzo novencentesco e non solo, è l’epicentro della storia che accade in tempo reale. Gli unici a non comprendere la portata degli eventi di cui sono testimoni, sono naturalmente i diretti interessati troppo impegnati a salvarsi la vita.
Wes Anderson firma il grande film sull’Europa, quello che una volta avrebbero potuto dirigere un Von Stroheim o uno Sternberg. Un Lubitsch o un Wilder.
E, non sembri un’eresia, Grand Budapest Hotel percorre un territorio ideologicamente prossimo a L’anno della morte di Riccardo Reis di José Saramago.
Fatte salve le differenze macroscopiche fra i due lavori e l’ampiezza dello spettro dell’autore portoghese, sia il romanzo di Saramago che il film di Anderson si soffermano sul sorgere dei totalitarismi che hanno seppellito e reso definitivamente obsoleta l’idea che si possa essere conservatori in un contesto che ha usato il conservatorismo per abbracciare la deriva autoritaria.
Il protagonista di Saramago si rende conto che all’indomani dei fatti di Spagna nessun alibi è più concesso all’intellettuale tradizionalmente conservatore e che l’ideale neoclassico, se non è calato nell’agone della storia, diventa strumento di collaborazionismo.
Similmente Anderson osserva lo sgretolarsi delle convenzioni estetiche e delle modalità di vita che esso favoriva, sotto la spinta di un’aggressione militare che rendono le frontiere che circondano l’hotel sempre più incerte.
La resistenza, nel caso del protagonista di Anderson, si offre come il tentativo strenuo di conservare inalterate le forme e le regole di vita e socializzazione dell’albergo pur nella consapevolezza che lo sforzo sarà vano.
Un castello di carte contro l’avanzare delle armi, dunque. Il Grand Budapest Hotel è dunque l’ultimo baluardo di un piccolo mondo antico che si erge inutilmente per arginare l’avanzata del nuovo.
Le piccole astuzie di M. Gustave per salvare la pelle e l’hotel sono il corrispettivo delle ironie formali adottate da Anderson che percorre la planimetria dell’albergo con carrellate geometriche premurandosi di cogliere con inquadrature che assomigliano a nature morte con concierge l’immobilità di uno spazio, di un tempo e di un pensiero.
In questo modo Anderson scavalca dall’interno il rischio del manierismo e si cala nel presente. Le scelte formali non si offrono più come meri vezzi autoriali, diventando elementi che scardinano dall’interno l’ideologia sulla quale si basa il luogo – set – deputato ad accogliere la messinscena della fine della storia.
L’evidenza dei movimenti di macchina è il corrispettivo infatti delle leve della storia che azionano il racconto.
Non è un caso che Gustave si affezioni a Zero grazie a un sentimento di humanitas eurocentrica derivato dall’ideologia coloniale del buon selvaggio (“loro” possono – forse – diventare come “noi”) laddove i militari nerovestiti ne sono completamente privi. Notazione politicamente precisissima e spietata che, inevitabilmente, pone sul banco degli imputati prima il colonialismo e i suoi epigoni poi. Entrambi, però, condividono il medesimo orizzonte. La vera tragedia del vecchio mondo…
Anderson racconta queste cose con la precisione di un sarto devoto alle prese con i rattoppi da fare alla livrea del suo maggiordomo preferito. L’ironia sostituisce la nostalgia, dando vita così a una sardonica girandola funeraria proprio mentre l’Europa, o ciò che ne resta, è ancora una volta sull’orlo del baratro. E non a caso è lo sguardo di uno statunitense a fare il punto sulle cose del Vecchio Mondo, celandosi dietro l’omaggio a Stefan Zweig e ai suoi preziosi ricami psicologici.
Anderson costruisce una macchina comica che deve tanto allo slapstick quanto alle farse da corte viennesi, utilizzando la macchina da presa per i rilevamenti da fare sul campo. Misurazioni di precisione estrema e di straordinaria libertà. Perché ogni movimento rivela crepe nell’organizzazione del Grand Budapest Hotel indicandone la fine ormai prossima.
Film politico di urgente eleganza e di puntigliosa precisione, Grand Budapest Hotel è probabilmente il film più “andersoniano” di Wes Anderson che riesce a estrarre il suo cinema dalla vertigine autoreferenziale per proiettarlo nel presente.
(23 aprile 2014)
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