Il film della settimana: “Henry” di Alessandro Piva
Giona A. Nazzaro
Tra i registi italiani degli ultimi anni, Alessandro Piva occupa un posto un po’ defilato. Fattosi notare con l’ottimo La Capa Gira, una sorta di noir dal marcato sapore post-77 (nonostante fosse il 1999…), una balorda storia di droga che poteva essere benissimo scritta e sceneggiata da Andrea Pazienza, il regista rivelava talento e audacia, al punto da fare incetta di David di Donatello e Nastri d’argento. Senza contare l’impatto esercitato dal dialetto barese, che ha reso necessari i sottotitoli in italiano. Un esordio col botto, come si suol dire.
Insomma Piva si smarcava con una bella finta terrone dai manierismi pseudo-autoriali di tanto giovane cinema italiano e imboccava senza troppe remore la tangente del godimento puro. Del racconto, del piacere del cinema. Come non volergli bene?
Ovvio che un esordio simile poteva porre non pochi problemi nei confronti della “seconda e difficile opera prima” (contraddizione in termini voluta…). Se l’esordio contava solo 70 minuti e un approccio sanamente punk, Mio cognato, realizzato quattro anni dopo con ben altra dovizia di mezzi, confermava la fedeltà di Piva a un’ambiente, a delle voci, suoni e sapori. Rispetto a La Capa Gira, Piva cedeva le redini del montaggio, ma conservava ben saldo in pugno un racconto che pur oscillando da Fuori orario a Un’altra vita, costeggiando l’immenso Dino Risi de Il sorpasso, viaggiava a velocità impensabili per il cosiddetto cinema d’intrattenimento. Grazie a un’alchimia di cast indovinatissima che opponeva un sublime Sergio Rubini all’ottimo e apparentemente dimesso Luigi Lo Cascio, Mio cognato dimostrava ampiamente che Piva aveva conseguito registicamente la maggiore età.
Ma se tra il primo e il secondo film il nostro ha impiegato quattro anni prima di ritornare dietro la macchina da presa, per il suo terzo difficile film, si è superato, raddoppiando i precedenti tempi d’attesa.
Otto anni tra un film e l’altro sono davvero tanti per un regista e non si fatica ad ammettere che prima che si spegnessero le luci in sala si temeva il peggio. Bastano poche inquadrature, però, per capire che quel corsaro di Piva non ha perso una sola oncia del suo sguardo e dell’atteggiamento di garibaldino all’arrembaggio.
Henry (in sala dal 2 marzo) ritorna alle origini del cinema piviano (ma si può dire?) ed è un’altra storia di cape che girano completamente perse dietro storie di roba e mafiosi tanto cafoni quanto letali. Ancora una volta emerge prepotente il sentore andreapazienziano della vicenda, come se Zanardi e Colasanti dovessero saltar fuori da un momento all’altro e scappare a gambe levate con l’eroina.
Ambientato in una Roma che sembra una scheggia impazzita di Bari, Piva prende costantemente in contropiede aspettative e presunto rispetto della sceneggiatura, organizzando una sarabanda di follia anarcoide che non perde mai la rotta. Il ritmo del racconto, controllato dallo stesso Piva ritornato in cabina di montaggio, procede frenetico intrecciando storie e punti di vista, senza mai perdere di vista l’umanità degli ultimi e degli sconfitti di una città che coltivano rancide memorie di se stessi e dei propri anni migliori o presunti tali.
Piva procede con grande audacia e abilità lungo una traccia narrativa che confonde commedia e tragedia senza mai scivolare nel cinismo gratuito. Anzi: conservando negli occhi la capacità di scandalizzarsi, di indignarsi. Basti pensare alla solidarietà istintiva fra la protagonista Carolina Crescentini e lo spacciatore interpretato da Aurelien Gaya o all’attonita violenza con la quale Alfonso Santagata ammazza il giovanissimo carabiniere che gli chiede se sia sua la macchina parcheggiata fuori posto.
Henry è il cinema di Alessandro Piva al suo meglio. Il racconto procede sicuro e senza intoppi mentre la macchina da presa riesce a scovare sempre nuove angolazioni dalle quali osservare il dilaniarsi dei personaggi.
Eppure, nonostante il frenetico agitarsi dei personaggi intorno alla “robba”, strepitoso lo sbirro cocainomane interpretato da Paolo Sassanelli, Piva bracca con grande attenzione soprattutto i loro momenti di smarrimento, quelli in cui sembrano galleggiare letteralmente nel vuoto.
Esemplare, in questo senso, l’inquadratura che precede i titoli di coda, che coglie Michele Riondino in campo lunghissimo davanti allo scorrere del Tevere. Smarrito sotto il cielo di Roma. E che faccio ora?
Sono tocchi come questo che rendono lo sguardo di Piva decisamente unico nel panorama italiano. Uno sguardo capace di fermarsi sconcertato e attonito di fronte a un mondo che va troppo veloce.
Se dunque Henry conferma la grinta di Piva resta comunque un timore. Stando alla progressione matematica (come definirla se non… levantina) dei suoi primi tre film, non vorremmo certo attendere 16 anni per vedere il prossimo film di Piva.
(23 febbraio 2012)
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