Il film della settimana: “Hereafter” di Clint Eastwood

Giona A. Nazzaro

La poetica sepolcrale di Clint Eastwood, il suo personalissimo libro dei morti americano maturato nell’arco di una carriera che ha rinnovato dalle fondamenta il classicismo fordiano e hawksiano, trova con Hereafter una formulazione assolutamente sorprendente. È almeno dai tempi de Il cavaliere pallido, se proprio si deve indicare una data, che il cinema eastwoodiano ha iniziato a ragionare ossessivamente sulla presenza di quella sottile linea di demarcazione che separa i vivi e i morti, intesa come luogo dove si materializzano presenze altre che inevitabilmente ridefiniscono lo statuto ontologico e cinematografico dell’eroe eastwoodiano.

Il suo cinema, infatti, si è andato configurando nel corso degli anni come il luogo di narrazione privilegiato dove rielaborare il lutto della morte e, al tempo stesso, cantare l’evanescenza del corpo e la seduzione del fantasma. Corpo all’apparenza neomassimalista del cinema statunitense, celebrato in forme vulnerabili nelll’icona Calla(g)han, Clint Eastwood, l’unico a potere reggere il peso dell’eredità mitopoietica di John Wayne, ossia l’immagine di un corpo che coincide con l’immagine di una nazione, è andato progressivamente erodendo la sua immagine e attraverso questo processo ha intensificato il dialogo con la dimensione fantasmatica del mito, proprio e del suo paese. Discorso intensamente pubblico e collettivo, il cinema eastwoodiano è oggi il cinema americano (statunitense) tout court. È tra i fotogrammi del suo cinema che oggi si ritrova solo quell’investimento mitopoietico che fu dell’Uomo che uccise Liberty Valance o de Il grande sentiero.

Amplificando il versante sepolcrale della poetica di John Ford, che riusciva a far fiorire il deserto e stampava la leggenda, dove la morte era sempre consustanziale dell’eroe (anzi lo fondava: vedi Sentieri selvaggi), Eastwood ha letteralmente creato un pantheon di fantasmi americani. Come un Edgar Lee Masters cinematografico ha (ri)creato tutti i nomi dei padri che sono stati fautori della nascita di una nazione.

E il suo corpo è sempre stato il catalizzatore di questo processo. Ma soprattutto lo è stato il suo gesto cinematografico, che ha fatto dire a Godard che bisognerebbe fare un film male come lo fa Clint Eastwood, provocando immediatamente in se stesso l’interrogativo: come si fa a far male un film come lo fa Clint Eastwood?

Se in Debito di sangue è il cuore di una donna che gli permette di continuare a vivere, ossia sottrarsi letteralmente alla morte, in un processo di femminilizzazione dell’eroe iniziato sin dai tempi di Brivido nella notte, in Million Dollar Baby Eastwood sancisce il fallimento del processo di transfert delle stimmate dell’eroe in un altro corpo. La transustanziazione del mito non avviene. L’eroe non rinasce in un altro corpo. E nell’ultima immagine del film, osserviamo Eastwood bere solitario in uno sperduto bar in compagnia solo dei suoi fantasmi. Il padre sacrifica la figlia e resta a piangere i suoi morti.

Tutto il cinema eastwoodiano degli ultimi tre decenni è stato un ossessivo dialogare con i morti, con coloro che continuano a determinarci attraverso la loro assenza, cosa che ovviamente significa che non solo ci sono stati, ma che continuano a vivere a causa di questa stessa assenza, di fatto una presenza quasi tangibile. Già, perché i fantasmi di Eastwood godono di una densità materica paradossale. Basti pensare allo straniero senza nome (quello di High Plains Drifter), al fuorilegge Josey Wales o, al contrario, al protagonista di Honky Tonk Man, minato nel fisico a tal punto che diventa un fantasma in vita.

Clint Eastwood, dunque, accoglie in pieno e senza remora alcuna, l’ineluttabilità della morte come elemento fondativo del cinema americano, quale paradossale motore della sua inevitabile vitalità. E, infatti, il cinema eastwoodiano è un cinema del qui e ora, un cinema dell’adesso e che in virtù del suo essere un corpo-fantasma aperto assurge a discorso politico di rara lucidità, ancorandosi saldamente a una prospettiva materialista restia a cedere a qualsiasi tentazione spiritualista che non sia la contemplazione stoica della finitezza della carne e del processo mitopoietico, inevitabilmente creata da questa finitezza. Quella di Eastwood è una mitografia verticale, segno di un principio d’individuazione che mette in discussione non solo se stesso ma anche il contesto storico e politico dal quale è scaturito.

Hereafter sin dal titolo si pone in una prospettiva laica (come tutto il cinema eastwoodiano, d’altronde). Anche se il titolo significa al di là, il quidopo della traduzione letterale è ben più affascinante. (Sempre) qui ma dopo. Here-After. Si resta sempre al di qua della sottile linea che ci separa dal dopo. Il mondo resta, anche e soprattutto in presenza dei fantasmi. E non è un caso che nel corso del film si evochi Dickens, lo scrittore che dorme circondato dagli ectoplasmi delle sue creazioni che approfittano della momentanea assenza del loro creatore per entrare nel mondo. Impossibile trovare, oggi, per la poetica eastwoodiana un’immagine più adeguata. Sempre dalla parte della pagina scritta (o che sta per essere scritta).

In questo senso Hereafter conduce alle estreme conseguenze la poetica eastwoodiana dell’assenza. Basti pensare alla traiettoria che compiono i protagonisti che si incrociano solo negli ultimi minuti del film e alla modalità attraverso la quale la possibilità di un mondo ulteriore viene privato di qualsiasi prospettiva confessionale o irrazionale. I protagonisti di Hereafter sono eastwoodiani sino al midollo: essi sono i fantasmi di se stessi. Proprio come Eastwood è il fantasma di Callaghan e Callaghan è il fantasma di John Wayne (e quest’ultimo, spuntato dal deserto, dal nulla in Ombre rosse, era il fantasma della nascita di una nazione). Corpi multipli ma cavi. Ricettacoli di altri corpi e storie. Paradosso sublime di un cineasta ritenuto alfiere dell’individualismo più arcigno, quello eastwoodiano è un cinema collettivo e Hereafter esplicita ancora una volta tutte le voci che lo attraversano come in una polifonia imperscrutabile.

Sarebbe quindi un errore imperdonabile imputare a Eastwood un approccio maggiormente hollywoodiano a causa della presenza di Steven Spielberg tra i produttori (senza contare che comunque i due avevano già collaborato ai tempi di Amazing Stories). Gli interrogativi che Eastwood formula sul quidopo sono radicalmente altri rispetto a quelli di Spielberg. Talento politico e messianico, Spielberg pone la salvezza (come l’aggressione) sempre al di fuori della sfera sociale, perché la polarizzazione della minaccia e della comunità gli permette di riflettere sulla sua composizione e le sue dinamiche.

Eastwood, invece, rispetto a Spielberg non mette in scena le minacce che aleggiano intorno a noi. Siamo noi stessi i portatori di fantasmi. Perché mentre viviamo continuiamo anche a scomparire inesorabilmente, poco alla volta, sino a diventare invisibili al nostro stesso sguardo. Eastwood è più nero di Spielberg, che tende sempre verso un azzurro che il segno di una classicità sognata in bianco e nero dallo schermo di un televisore da qualche parte negli anni Cinquanta.

Hereafter
, dunque, più che avvicinarsi al sublime delirio mélo di Always – Per sempre (reinvenzione di Joe il pilota di Victor Fleming), richiama prepotentemente alla memoria L’amour à mort di Alain Resnais. Se infatti Spielberg abbraccia totalmente la dimensione ultraterr
ena, anche se solo in chiave frankcapriana, ossia l’aldilà come la Shangri-La definitiva, Eastwood inevitabilmente resta nel mondo. Nessun mondo oltre il mondo. Ciò che è al di là di noi stessi, sta nei nostri occhi. Matt Damon, operaio-sensitivo licenziato (tocco di rara potenza), ha bisogno solo di toccare brevemente le mani di qualcun altro per vedere.

Clint Eastwood approccia il quidopo con un rigore esemplare. Più il racconto procede, più il mondo esterno si delinea, si manifesta. È il mondo oggi che definisce il dopo. Come in Resnais, il corpo ci ancora al qui mentre il dopo resta inevitabilmente fuori dal perimetro dell’inquadratura. D’amore si muore, ma si resta pur sempre un corpo che ama e pertanto continua a vivere mentre muore. E se Spielberg affidava a Audrey Hepburn le notizie dall’altro mondo (come dire che l’aldilà è un’agrodolce e infinita Colazione da Tiffany…), Eastwood, con una scelta raffinatissima, elegge Marthe Keller, la Lillian di Un attimo una vita, quale portavoce del dubbio, lei che ha camminato tra la vita e la morte nel capolavoro mélo di Sydney Pollack.

L’esilio nostro, e dei fantasmi che ci abitano, è di non avere altra scelta che dimorare nel mondo. Non si può far altro che vivere. E Matt Damon, con una battuta che avrebbe potuto pronunciare Callaghan, dichiara che non si può vivere di morte. Come dire che Hereafter è anche una riflessione sulla presenza del mitologema della morte nel cinema americano. E in questo senso a Eastwood riesce dove Wenders aveva fallito, ossia nel mettere in scena the end of violence (la fine della violenza).

Da sempre ossessionato dalla redenzione della violenza americana (che altro era Million Dollar Baby se non questo desiderio di togliere i peccati dal mondo?… che altro era Gran Torino se non una chiamata a deporre le armi?…), Eastwood con Hereafter tenta letteralmente di rendere presente la morte come elemento e segno che determina il nostro quiora.

Film misterioso e sublime, Hereafter è l’ennesimo capolavoro di un maestro la cui prodigiosa produttività è pari solo a quella di Manoel de Oliveira, per come riesce con ogni nuovo film ad arricchire il già ricchissimo corpo di una filmografia esemplare.

Incurante dell’aura mitologica che oggi circonda ogni suo passo, Clint Eastwood continua a fare cinema rischiando e sperimentando. E ancora una volta non ci resta che chiederci: come fa quest’uomo a firmare solo capolavori?
Herafter è il cinema eastwoodiano che cerca e manifesta nuove forme di vita.

(21 dicembre 2010)

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