Il film della settimana: “Holy Motors” di Leo Carax

Giona A. Nazzaro



Con un anno abbandonante di ritardo, giunge anche nelle nostre sale Holy Motors, il nuovo film di Leos Carax, presentato l’anno scorso in competizione a Cannes e completamente trascurato dalla giuria capitanata da Nanni Moretti. Senza rievocare polemiche ormai trascorse, honteux, vergognoso, era il giudizio che circolava sulla Croisette rispetto all’esclusione del film di Carax dal palmarés.

Con notevole spirito di presenza, battagliero e polemico, Olivier Pére, ex direttore di Locarno, correva spettacolarmente e in prima persona in soccorso di Holy Motors, conferendo a Carax un Pardo alla carriera.
Leos Carax, dal canto suo, confermava su tutti i fronti la leggenda del suo carattere sfuggente e della sua intelligenza acutissima (basti pensare alla straordinaria missiva inviata all’associazione dei critici di Los Angeles che volevano premiarlo per “il miglior film in lingua straniera”). Sul numero di Nocturno attualmente in edicola è possibile leggere la trascrizione dell’incontro pubblico con Carax svolto al forum di Locarno in occasione del conferimento del premio.
Intanto, considerato che ovunque Holy Motors andava incontro a entusiasmi memori di altre stagioni e di altri “cinemi”, l’assenza dagli schermi italiani del film si faceva progressivamente sempre più pesante.

Con più di un anno di ritardo, dunque, Holy Motors vede finalmente il buio delle sale italiane. E ci piace considerarla in qualche modo anche una vittoria di una “certa” idea di “cinefilia”.
Prodotto da Martine Marignac, che vanta al suo attivo Straub, Rivette e altri maestri del cinema moderno, Holy Motors non assomiglia a nulla di quanto attualmente è in circolazione. Per il carattere assolutamente altro, alieno, stanno alla pari con il film di Carax, a nostro giudizio, solo Twixt di F.F. Coppola, Tabu di Miguel Gomes e Norte di Lav Diaz visto da poco a Cannes. Per il resto Holy Motors fa stato a parte, come si diceva una volta.

Interpretato da Denis Lavant, il film mette in scena Mr. Oscar, un corpo-non-corpo, un palinsesto d’identità possibili, o forse semplicemente l’ultima delle possibilità di continuare a giocare con il sogno della vita, ossia esistere ancora, che assume su di sé, di volta in volta, brandelli di storie che interpreta con la scrupolosità di un impiegato modello.

Nascosto nella sua stretch limo guidata dalla magnifica Edith Scob che ricordiamo in Yeux sans visage di Georges Franju, Mr. Oscar incarna la resistenza ultima del fare. Interrogato da un inquietante Michel Piccoli, Oscar lamenta la scomparsa delle macchine “grandi”, rivendica la bellezza del gesto e poi scompare nella notte come un Judex o un Phantomas che invece di rubare o uccidere, restituisce, esorcizza, evoca, vendica e rivendica la vita che non c’è più (anche se anche lui a suo modo uccide e si fa uccidere).

Tutto Holy Motors è uno sconcertante atto d’amore nei confronti del cinema ma l’importanza del film non si limita a questa semplice ed evidente costatazione.
Carax, schierandosi dalla parte del fare, diventa fautore e tutore di una scelta di campo. Una produzione a rischio d’estinzione, il cinema, osa risognare il mondo a fronte dell’oblio.
Non è un caso che il film si apra con Carax sonnambulo che dalla sua camera da letto si ritrova in una sala cinematografica dopo avere aperto una parete “lynchiana”.
Il sonno dell’immaginario contrapposto alla reverie dell’immaginario. E quando si sogna tutti insieme che solo si può provare a spostare le linee del mondo. Dall’immobilità che è impotenza, si passa così alla scienza delle soluzioni possibili.

Attraverso le mille formulazioni delle sue identità, Mr. Oscar riscrive il mondo. Ricontestualizza la bellezza, ridistribuisce la ricchezza, osa resistere insomma. Osa resistere per continuare a sognare perché è nel sogno che la rivoluzione prende corpo imprendibile.
I motori sacri quindi non sono solo quelle delle ultime macchine da presa, quelle enormi che facevano dire a Mario Caiano, cineasta lontanissimo da Carax, “con quelle macchine lì dovevi per forza andare sul set sapendo cosa avresti fatto. Non potevi improvvisare e spostare un peso simile…”. Cambiando le traiettorie cambiano anche le storie.

I motori sacri sono i lumi dell’immaginario. Gli arcangeli custodi dell’ultima resistenza. Carax nel suo film cita non a caso il protocinema, Marey, l’origine stessa del dispositivo di riproduzione. Torna alle origini, alla cosa vista. Al rapporto che lega lo sguardo all’ontologia della cosa vista. Al patto fondativo del cinema.
Ed è questo patto il luogo di narrazione “politico” di Holy Motors. Perché questo patto chiama in causa il mondo e l’immaginario che secondo Carax, a quanto pare, non è un insieme di mitologemi campionabili a piacimento. No. L’immaginario è la testimonianza della nostra presenza nel mondo. Il dispositivo di riproduzione che lo ha creato e reso visibile è il motore mobilissimo che instancabile continua a interrogarci per sapere dove ci troviamo “ora” e come ci siamo “spostati”.

Holy Motors
è il canto del cinema. Il canto del ventesimo secolo che si leva digitale e si osserva mancante e già oltre la propria “mancanza”. E Carax non fa nulla per non rendere questa divaricazione ancor più lacerante.
Non ci siamo più, noi. Occhi senza volto. Ospiti di macchine leggere. In cerca di storie che ci possano ancora una volta raccontare. Raccontare che ci siamo stati. Che abbiamo vis(su)to. Anche se a Hiroshima non c’era niente da vedere e a un campo di sterminio ci si può arrivare da ogni parte.

Quale altro cineasta è riuscito a formulare con tanta lucidità ciò che ci manca e che abbiamo perso senza per questo cedere alla tentazione del feticizzazione della nostalgia restando saldamente nel campo della politica?
Perché vedere è sempre il risultato di un “fare”. E il fare è il prodotto di un “lavoro”.
Ciò che piange Holy Motors, in definitiva, è la mancanza, la sparizione, di una comunità fondata su un lavoro che permetteva di sognare le immagini, di vederle, di farle e condividerle e sognare in questo modo ancora altre comunità, altri luoghi. Altre possibilità di spostarsi ancora.
Il cinema senza una comunità, insomma, non è cinema. È l’industria del cinema e basta. I film come merce. Esilio dal cinema. Oggi, insomma.

Come diceva Straub: Griffith ha inventato il cinema e poi lo ha perduto come industria (citiamo a memoria…).
Carax con Holy Motors mette in scena la fine del cinema come sparizione di una comunità. Restano solo brandelli di storia, pezzi di vita. Il delitto perfetto, insomma. I film coprono la mancanza del cinema. E Holy Motors ci racconta che il mondo non esiste più. Ci è stato rubato.
Ma non solo. Ci racconta anche il sogno più enorme di tutti: rivivere ancora.

(6 giugno 2013)



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