Il film della settimana: “Hunger” di Steve McQueen
Giona A. Nazzaro
Presentato nell’ambito di Un certain regard a Cannes qualche anno fa, Hunger di Steve McQueen ha dovuto attendere l’affermazione di Michael Fassbender in quanto neo-oggetto del desiderio per essere distribuito nelle sale Italiane. Così Hunger appare dopo Shame, a nostro avviso uno tra i titoli più sopravvalutati degli ultimi anni, per quanto non completamente disprezzabile, e mette in luce pregi e problemi del sistema espressivo di Steve McQueen, cineasta interessante ma ancora in divenire.
Anche Hunger, come Shame, è la storia di un’ossessione che incide direttamente sulla rappresentazione del corpo e di conseguenza modifica i rapporti con l’ambiente circostante, cosa in sé eminentemente politica. Certo, nel rievocare il martirio laico di Bobby Sands, McQueen ancora non ricorre alle semplificazioni che sarebbero affiorate in Shame. Il suo sguardo è più fermo e meno incline alle concessioni estetizzanti. Il venire meno del corpo, come luogo sul quale imporre una norma e uno sguardo, è messo in scena come un’erosione progressiva. Un venire letteralmente a mancare allo sguardo. Pertanto il film si concentra sulla mutazione della funzionalità del corpo. Esemplare la presenza delle feci e di “scarti” corporei ricontestualizzati in una lotta tesa all’affermazione di se stessi a partire proprio dagli elementi ultimi, quelli sui quali meno si può esercitare il diritto al dominio.
L’origine “artistica” di McQueen è evidente proprio nell’approccio alla materia corpo: del corpo il regista filma le mutazioni come se si trattasse di una performance estrema, tesa da qualche parte fra un Bob Flanagan cattolico e una Orlan interiorizzata. La causa irlandese rimane sempre sullo sfondo: un motore scatenante del quale non sono mai indagate le ragioni o le azioni. Mero catalizzatore di gesti, sia di affermazione che di repressione, la causa irlandese è resa astratta, glaciale nella sua distanza dai corpi. Cosa che ovviamente produce un salutare effetto di estraniamento che è messo in abisso nella lunga inquadratura fissa che vede confrontarsi in piano sequenza Fassbender e Liam Cunningham. Il discorso dei due sembra come non avere nessun rapporto con la realtà dei luoghi o del corpo. Tutto è come congelato in un eterno presente. Ed è anche l’unico momento del film nel quale si percepisce per davvero la presenza di un corpo in piena trasformazione. Nella sua assoluta intangibilità e impossibilità di rappresentazione.
Steve McQueen, dunque, sin da questo Hunger, annuncia il suo interesse per un cinema contemplativo e performativo. E sin da questo primo lungometraggio evidenzia che la debolezza del suo sistema è un’incapacità di resistere alla tentazione di psicologizzare il conflitto corporeo.
McQueen, nonostante non gli difetti certo la capacità di osservazione, deve spiegare: come se non si fidasse sino in fondo dell’immagine e del lavoro che potenzialmente è in grado di svolgere. Come se dietro l’artista contemporaneo si celasse un “contenutista” ansioso di chiarire, sottolineare. Anche Hunger, ma in misura minore rispetto a Shame, è vittima di questa tensione. E laddove il film poteva librarsi algido nel suo partito preso, evitando di fornire spiegazioni segnaletiche, e in questo modo far deflagrare la scelta assolutistica di Sands, come inaccettabile e aliena, e pertanto unica, irripetibile, dunque profondamente politica, riconduce il calvario del corpo politico all’interno del linguaggio condiviso, come se fosse parte di un dibattito.
A nostro avviso, ma magari sbagliamo, questo calo di tensione, ci pare il limite politico principale di un film che comunque non è affatto privo di motivi d’interesse. Dispiace, perché Hunger insinua potenzialità forti, deprivate di efficacia a causa di scelte registiche non all’altezza delle premesse.
(7 maggio 2012)
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