Il film della settimana: “Il rifugio” di François Ozon

Giona A. Nazzaro

IL RIFUGIO di François Ozon (Francia 2009)

François Ozon è un cineasta che in Italia continua a essere studiato con una certa circospezione. Autore molto apprezzato in patria, suscita reazioni di sfiducia o di disinteresse dalle nostre parti.

Pur potendo essere considerato a tutti gli effetti un “autore”, nel senso stretto della “politica degli autori” postulata dai Cahiers du Cinéma degli albori, Ozon, piuttosto che muoversi intorno a un nucleo tematico sempre riconoscibile, magari circondandosi di collaboratori fidati in modo tale da poter conferire al suo cinema una sostanziale unità di sguardo, ha fatto invece della discontinuità la cifra fondante della sua poetica.

All’interno di una filmografia relativamente giovane ma già ricchissima di titoli, François Ozon evidenzia una straordinaria versatilità abbinata a una funambolica abilità nel cambiare registro espressivo, sguardo e modalità d’approccio alla messinscena.

Con una leggerezza che in genere si riscontra solo nei più abili cineasti industriali, Ozon trascolora da un genere all’altro senza mai smarrire il proprio singolarissimo tocco. Cosa che produce il sorprendente risultato di un’opera realizzata rigorosamente in prima persona singolare, ma priva delle auto-indulgenze che inevitabilmente affiorano quando un autore lavora solo ed esclusivamente in funzione della propria visione del mondo.

Ozon, invece, che una sua idea del mondo la possiede, preferisce il gioco mimetico dell’occultarsi e del rivelarsi, stando contemporaneamente dentro la tradizione maggiore del cinema industriale francese ma ben consapevole di tutte le scosse d’assestamento prodotte dai registi più fecondi della post-nouvelle vague.

Pertanto nella filmografia di Ozon è possibile trovare oggetti urticanti come Amanti criminali; omaggi fassbinderiani trasversali come Gocce d’acqua su pietre roventi, lancinanti monologhi d’attore come Sotto la sabbia, sardonici thriller come Swimming Pool, esercizi di stile come 8 donne e un mistero e persino disturbanti incursioni operaiste di matrice cronenberghiana come Ricky.

Ed è proprio a quest’ultimo film che Il rifugio sembra ricollegarsi. In Ricky una donna partorisce letteralmente un angelo, cosa che la costringe a interrogarsi sull’alterità rappresentata da un’altra vita. In questo senso l’attenzione posta ai dettagli anatomici mutanti della creatura dichiarava l’ironica prospettiva materialistica adottata da Ozon, il quale in questo modo riusciva a mettere in scena un tabù sociale, la maternità come produttrice di mostri (in senso strettamente etimologico), smarcandosi dalle ipoteche confessionali e ideologiche. Ricky diventava quindi una parabola cronenberghiana calata in un ambiente operaio che nelle mani di un Ken Loach o dei Dardenne si sarebbe inevitabilmente ridotto al già visto.

Il rifugio, forse per la prima volta nella filmografia di Ozon, riprende in maniera visibile un filo tematico e narrativo di un precedente film del regista. Prodotto in collaborazione con la Teodora di Vieri Razzini, Il rifugio è esattamente quel tipo di cinema che in Italia è assolutamente impensabile.

Stretto in pochissimi set, interpretato da un pugno di attori concentrati e privi di qualunque manierismo teatrale, Il rifugio mette in scena la storia di Mousse (Isabelle Carré), una ragazza tossicodipendente che dopo la morte del suo compagno Louis (il sempre eccellente e ruiziano Melvil Poupaud) scopre di essere incinta, e decide di portare a termine la gravidanza contro il desiderio della suocera.

Se in Italia la sinistra ufficiale ha preferito cedere alla destra e al Vaticano sulle questioni relative alla maternità e famiglia, adottandone di fatto pregiudizi e miopie, un film come Il rifugio dimostra con una semplicità sconcertante che almeno in certi ambiti del cinema francese è possibile pensare su queste problematiche in forme autonome e libere da qualsivoglia preconcetto ideologico.

Sorto dal desiderio di Ozon di lavorare con un’attrice incinta, Il rifugio è una sorta di parabola bressoniana al contrario. Mousse, un nome che evoca sapori bressoniani, vive la sua trasformazione fisica oscillando fra il desiderio di scoprire una nuova possibilità della sua sessualità e il sortilegio di riportare in vita l’amato Louis in un altro corpo.

Ozon è estremamente attento e partecipe nel costruire le scene intorno al corpo di Isabelle Carré. Con una limpidezza di sguardo esemplare, il regista compone le inquadrature con una semplicità classica, ponendo grande attenzione a non escludere nessun elemento dal perimetro delle reazioni della protagonista. Il corpo di Mousse diventa in questo modo, letteralmente, il catalizzatore di altre vite. Piuttosto che isolarla, stando ai dettami di un’ideologia banalmente nucleare, Ozon apre letteralmente il corpo di Mousse sul mondo. Per cui il miracolo non occorre al termine della gravidanza con il parto, strategicamente lasciato fuori campo, ma durante la gestazione di una nuova vita.

Il rifugio è la storia della scoperta di una dialettica nuova; fra un corpo che ne fa sorgere un altro e che nel processo scopre, esponenzialmente, la propria alterità.

Ozon, filmando corpo a cuore, mette in campo anche la problematica della genitorialità gay attraverso la figura di Paul (Louis-Ronan Choisy), fratello adottivo di Louis che, pur non rinunciando alla propria sessualità, non può evitare di provare attrazione nei confronti del corpo mutante di Mousse. E anche in questo caso, l’approccio è altamente anticonvenzionale e schietto.

Il rifugio, dunque, pur partendo da premesse di fondo che parrebbero bressoniane, sembra più prossimo a un certo Ferreri, quello femminista e cantore della fine della (in)civiltà maschile. Come le eroine di Ferreri, Mousse è imprendibile (letteralmente) e le sue scelte non sono riconducibili ad alcuno scacchiere ideologico.

Scevro da tentazioni spiritualiste, o peggio confessionali, Il rifugio è un film altamente spirituale. Un film che fonda la propria spiritualità nella inestinguibile materialità dei corpi, celebrandone l’intima anarchia e libertà.

Grazie a uno stile classicamente invisibile, fatto di cesure invisibili, scarti di montaggio e inquadrature perfette, Il rifugio confermando il talento di Ozon ne rilancia il mistero.

(25 luglio 2010)

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