Il film della settimana: “Il tempo che ci rimane” di Elia Suleiman

Giona A. Nazzaro

IL TEMPO CHE CI RIMANE (Gran Bretagna / Italia / Belgio / Francia, 2009) di Elia Suleiman

Elia Suleiman non è un regista molto prolifico. Eppure i suoi lavori sono tra i più significativi per capire cosa è ed è stata l’occupazione della Palestina da parte di Israele. Dopo l’ottimo Intervento divino, del 2002, Elia Suleiman ritorna con Il tempo che ci rimane, presentato in concorso a Cannes l’anno scorso. Si tratta di un’opera complessa e lieve al tempo stesso. Profonda e arguta. Dietro al sorriso si cela la disperazione ma non il rancore. Come suo solito, Elia Suleiman è il protagonista del film. Osserviamo le cose attraverso il suo sguardo, eppure non c’è manipolazione alcuna. Il regista non ci tira per i capelli dalla sua parte e non pietisce la nostra commozione. Suleiman, pur calato inestricabilmente nella materia delle relazioni che costituiscono la realtà politica e militare dell’occupazione, non cede all’invettiva, non cede allo slogan.

Il tempo che ci rimane è uno stupefacente esempio di film-saggio. Una di quelle rarissime opere in cui la politica diventa filosofia, in cui ciò che conta è il pensiero. Non a caso Suleiman nel corso degli anni ha intessuto un dialogo profondo fatto di amicizia e lavoro con Amos Gitai, regista israeliano da sempre critico nei confronti della politica del suo paese riguardante la situazione palestinese.

Il tempo che ci rimane inizia con Elia Suleiman che ritorna a casa per rivedere la madre che sta per morire. All’aeroporto monta su un tassì israeliano. In lontananza nuvole nerissime gravide di pioggia si gonfiano minacciose. Suleiman si lascia andare al ricordo. E rivede l’occupazione di Nazareth da parte delle forze armate israeliane. Rivive il trauma prodotto da quella violenza che si manifesta in una sorta di immobilismo fatalista, come se l’occupazione avesse congelato il tempo.

Non si parla molto nel film di Suleiman. Lo sguardo attonito e fisso del regista buca lo schermo. La memoria è vissuta sempre in prima persona singolare e al presente indicativo. Non si dimentica, non si procede. Fissi nel tempo. Ci vorrebbe appunto un intervento divino per andare oltre. Per sbloccare la condizione di stallo.

Si ride molto nel film di Suleiman. Si ride amaro, ma si ride. Elia Suleiman è probabilmente il più raffinato umorista del cinema contemporaneo insieme a Otar Iosseliani e Manoel de Oliveira. Il regista costruisce le sue geniali gag con una sapienza icastica degna di Buster Keaton. Nella precisione con la quale delimita lo spazio dell’inquadratura per dare vita all’effetto comico è possibile rintracciare la genialità architetturale di Stan Laurel e la svagatezza lunare di Jacques Tati. Suleiman non si dimentica mai che sta facendo del cinema e i risultati sono sublimi.

Osservare Il tempo che ci rimane è ripercorrere nello spazio di un unico film lo spettro temporale che dal cinema muto s’estende sino al modernismo radicale della post-nouvelle vague. Dal cinema classico caratterizzato da un découpage invisibile al cinema del montaggio proibito. Suleiman riesce con una sola inquadratura a collegare, con un’arguzia a tratti addirittura godardiana, le comiche del muto con il pensiero di André Bazin.

Film dal nitore etico insostenibile, Il tempo che ci rimane trasforma la propria frustrazione e la propria rabbia in un discorso cinematografico. Cosa tanto più ammirevole e sconvolgente in quanto il film è anche la storia della famiglia del regista segnata letteralmente a fuoco dall’invasione israeliana.

Suleiman reca nella propria carne i segni dell’invasione eppure non rinuncia al lusso del cinema. Non rinuncia al lusso di pensare, non rinuncia al lusso della resistenza. Il tempo che ci rimane è sin d’ora uno dei film più importanti della stagione cinematografica. Un film il cui titolo rischia di essere addirittura profetico alla luce degli ultimi eventi che vedono protagonista il governo militarizzato di Israele. Il tempo che ci rimane è la cronaca del tempo che ci è stato rubato.

Ed è proprio alla luce della violenza che la serena (per quanto sofferta) lucidità di Elia Suleiman si offre come il più indispensabile strumento di lotta politica ipotizzabile per vivere il tempo che ci rimane.

(8 giugno 2010)

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