Il film della settimana: “Il villaggio di cartone” di Ermanno Olmi
Giona A. Nazzaro
Il senso di indignazione e di pietà è tangibile tra le pieghe dei fotogrammi de Il villaggio di cartone, l’ultimo film in ordine di tempo di Ermanno Olmi. Un film che con grande forza rivendica il volere essere testimone e protagonista del proprio tempo. Dietro l’apparente facciata naïf di un apologo primitivo, come se il set non fosse altro che le misere tavole di un palcoscenico improvvisato, si cela la sofferta riflessione politica di un cineasta che da sempre ha inseguito e praticato un cinema ad altezza d’uomo e che non ha mai evitato di schierarsi, anche a costo di aspri dibattiti e incomprensioni.
Nella vicenda di un sacerdote che si vede smantellare sotto i propri attoniti e scandalizzati occhi la chiesa nella quale ha officiato messa per tutta la vita, Olmi suggerisce con chiarezza inequivocabile la scomparsa stessa del mondo (meglio, di una certa idea del mondo) e, soprattutto, la recisione degli ultimi vincoli che ancora legano l’uomo al proprio fratello.
L’incipit del film è potente. Lo sguardo stanco di Michel Lonsdale si leva verso un crocefisso sospeso per aria. Gli occhi sono carichi di domande. Il Cristo, però, non fornisce (più?) risposte. Il prete è solo. Uomo tra gli uomini.
Questi pochi istanti veicolano una potenza icastica che inevitabilmente evoca il magistero di Dreyer e Bresson. Dal volto di un uomo al mondo (o alla sua assenza) per testimoniare che tocca ancora una volta all’uomo stesso farsi strada nel mondo.
Dall’esterno della chiesa che sta per essere smantellata provengono gli ululati di sirene. L’eco di colpi da armi da fuoco. Il calpestio degli anfibi sulla strada. Gente che scappa. Gente che grida. Nottetempo dei migranti privi di documenti si rifugiano nella chiesa.
Se nella rappresentazione della solitudine di un uomo di Dio il film di Olmi è straziante nella sua umanità, più problematiche risultano le modalità di rappresentazione delle masse di uomini che dal sud del mondo chiedono di essere ammessi nelle nostre vite.
Accolti dall’anziano prete, gli immigrati mettono in scena la loro odissea attraverso le frontiere, le dogane e la burocrazia come se rivivessero alcuni momenti privilegiati della vicenda terrena di Cristo. Dalla natività, al tradimento nell’orto degli ulivi, alle tentazioni. Il tutto in linea con l’aspirazione all’apologo del film, al punto da rasentare addirittura un paradossale straniamento brechtiano.
Eppure nel nitore formale di Olmi non tutto torna. Se lo scandalo di un intellettuale cristiano che profondamente innamorato del Cristo ancora lo cerca è tangibile, suscitano perplessità le modalità di rappresentazione dell’altro (seppure nella dimensione volutamente stilizzata dell’apologo).
L’altro e la sua inevitabile e ineludibile alterità sono resi attraverso una sorta di pregiudizio umanistico che fatalmente cancella differenze e complessità. Il limite, ci sembra, non è tanto di Olmi, quanto di un modello interpretativo messo a dura prova dagli avvenimenti degli ultimi anni (cosa che del resto vale anche per ciò che resta delle ideologie di una volta). Un modello che si riferisce a un cristianesimo di base come pratica per operare la carità anche nelle condizioni più “a rischio” (come giustamente rivendica il prete nel film) che però inevitabilmente sembra faticare nel rendere tutte le diverse sfaccettature delle complessità che ci circondano.
Per cui l’appello al cambiamento, contenuto nell’epigrafe finale del film rischia purtroppo di risuonare a vuoto a fronte della necessità di capire che per cambiare occorre necessariamente comprendere come e perché la storia sta cambiando, nonostante le resistenze di chi non vuole affatto comprendere ma solo conservare i propri privilegi.
Che Il villaggio di cartone, per fare un esempio concreto, elimini completamente dal ritratto degli immigrati qualsiasi riferimento all’Islam, ci sembra un evidente limite proprio laddove il desiderio dell’abbraccio nei confronti del prossimo si afferma così potente. Per quanto giusto possa essere l’appello a privarsi di tutte le chiese, non si può fare la medesima richiesta a chi ormai possiede solo la propria chiesa e null’altro. Una cosa è che i privilegiati d’Occidente e non si privino delle chiese che fanno scudo ai particolarismi e agli egoismi, altra è chiedere agli ultimi di privarsi persino di ciò che conferisce loro ancora un nome. Motivo per cui il film, paradossalmente, pecca di eccessiva generosità rischiando così di imporre un modello unico entro il quale far esistere quelle masse che pure chiede di accogliere con tanta schiettezza.
Il rischio maggiore che un film come Il villaggio di cartone corre è quello di una genericità, tentazione irresistibile della semplicità, che banalizzi le problematiche evocate. Se da un lato il film suggerisce la pratica della disubbidienza civile come unica strada per opporsi alle leggi ingiuste, dall’altro è proprio questa difficoltà nel rendere le complessità del particolare momento storico messo in scena attraverso la forma dell’apologo a evidenziare crudelmente che, come al solito, la buona volontà non basta per comprendere le sfide della storia.
Per cui se Michel Lonsdale commuove sino alle lacrime quando, in una delle scene più impossibili del film, di fronte alla scoperta che durante la notte è nato un bimbo in chiesa, intona l’Adeste fidelis inginocchiato davanti all’altare, dall’altro il ragazzo che si cinge il corpo con cariche d’esplosivo suscita molte perplessità. Perplessità non fugate dalle dichiarazioni di Olmi, anche quando fustiga la borsa di Milano (un’altra chiesa) e la ricchezza (che è un crimine, oltre un certo limite… che significa?).
Il villaggio di cartone in questo senso è davvero il luogo ideale per osservare il farsi di una crisi di una intellettualità cristiana che, pur smarcandosi dalle posizioni ufficiali della chiesa di Roma, e mettendosi coraggiosamente in discussione, ci pare riaffermi purtroppo il primato di un modello interpretativo che fa genericamente appello all’umano attraverso l’esempio primo e definitivo dell’esperienza di Cristo. Il problema, ovviamente, in questa faccenda è che non tutti partiamo dalle medesime premesse. E se è evidente la lacerante tensione di chi s’inoltra ancora di più nell’agone di un conflitto politico, sociale e intellettuale per andare incontro ai propri fratelli, ciò non di meno resta il problema di fondo dello sguardo che si porta su questi fratelli. Certo Olmi potrebbe, a ragione, obiettare che anche i laici devono liberarsi della chiesa del loro laicismo, e non possiamo certo dargli torto. Il problema del metodo, però, resta aperto.
Purtroppo o per fortuna gli altri sono sempre un po’ più… altri di quanto ci immaginiamo. Ed è per questi motivi che, per fortuna, ci mettono in crisi: perché sono imprendibili.
Ciò che resta, dunque, del film di Olmi, al di là di qualche semplificazione di troppo, è da un lato una vigorosa testimonianza umana e come tale inevitabilmente contraddittoria (cosa che ovviamente ne fonda anche l’unicità e la ricchezza). Dall’altro il segno di una sconfitta, che ci coinvolge tutti. Perché se Olmi si mette in gioco per le cose che gli stanno a cuore, prendendosi anche dei rischi considerevoli, dall’altra parte la
sinistra (o ciò che ne resta) limitandosi ad applaudire acriticamente il maestro, demanda ancora una volta le proprie responsabilità a delle dichiarazioni di principio che lasciano il tempo che trovano. Non è “adorando” che si può aspirare a partecipare delle cose del mondo.
Curiosi, infine, alcuni punti di contatto che Il villaggio di cartone sembra condividere con Cartoni animati, uno degli ultimi lavori dell’immenso Sergio Citti, anche lui portatore di un cristianesimo contadino. Come Citti, anche Olmi chiama a raccolta l’umanità per un’ultima resistenza. Laddove però Citti fidava negli appetiti degli ultimi quale motore del cambiamento, Olmi guarda al cuore. Ed è proprio in questa geografia umana, tesa fra pancia e cuore, che si gioca il resto della partita.
(6 ottobre 2011)
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