Il film della settimana: “Io e te” di Bernardo Bertolucci

Giona A. Nazzaro

Dove lo si trova oggi il cinema in Italia? In uno scantinato, chez Bertolucci.

Bertolucci è il punto d’osservazione migliore, addirittura l’unico verrebbe voglia di dichiarare, attraverso il quale osservare il paese Italia e il cinema che questo produce e continua a produrre.

In un paese che soffoca d’idiozia cinematografica a base di adolescenti che sembrano zombi griffati che tracimano dalla pubblicità nell’irreale post-realtà post-televisiva, i corpi di Bernardo Bertolucci, feriti e vulnerabili, palpitano di una verità sconcertante, incomprensibile nel desolato panorama nazionale.

Questi corpi non solo si riagganciano a una verità fisica che sembra rimandare direttamente a Pier Paolo Pasolini ma evocano una nobiltà del nostro cinema che ormai sembra essere praticata solo come resistenza e differenza. Se lo straordinario volto di Jacopo Olmo Antinori rievoca le fattezze dell’ Ettore Garofolo protagonista di Mamma Roma, Tea Falco evoca addirittura, misteriosamente, una bellezza pre-neorealista, come di una principessa decaduta di Riccardo Freda.

E mentre il resto del cosiddetto cinema giovane italiano si dibatte (ancora!) tre metri sopra al cielo, Bertolucci, in un geniale e sovversivo movimento in avanti, sprofonda sottoterra, underground. Come dire che in assenza di una comunità dei vivi, l’unica cosa che resta da fare è rimettere mano alla lingua perduta della comunità dei cosiddetti “morti” che se non altro sanno di essere stati vivi. Se non altro come cinema. E “noi”, l’altra comunità, li abbiamo visti e siamo stati visti.

Come in una catacomba del cinema, Bertolucci celebra il magistero dell’arte del ventesimo secolo. I suoi due corpi si separano dal mondo e reinventano un patto sociale. Proprio come Bertolucci, che nel ventre camera oscura dello scantinato crea un laboratorio magico che a sua volta diventa una lanterna magica cocteauiana dove gli oggetti dismessi e inutilizzati diventano gli strumenti per dare vita a un mondo parallelo.

Come in un assedio, dove tutto può e deve essere utilizzato per respingere l’attacco della realtà al resto del tempo, Bertolucci provocatoriamente si libera dell’Italia stessa. La taglia dal corpo del proprio cinema e sogna; sogna un altro mondo. E questo è uno scarto dal sapore aurorale, di un’audacia folle.

D’altronde cos’è l’aurora se non il momento, per dirla con Godard, in cui tutti i buoni stanno in un angolo e tutti i cattivi in un altro (tra l’altro lo si dice in Prenom Carmen, premiato da Bertolucci a Venezia con il Leone d’oro).

Perché di questo si tratta. Lorenzo è ferito e chiuso in se stesso. Olivia è troppo aperta. Come una piccola Nico si buca e il pensiero corre alla generazione dei Bargellini, Schifano o di critici visionari e geniali come Marco Melani. Gente in grado di conservare tutto il proprio mondo negli occhi. E di donarlo in olocausto.

Si ritrovano insieme a condividere lo spazio di uno scantinato e inevitabilmente incomincia la danza di un dream che anela ancora alla rivoluzione. Quella vera. Lorenzo e Olivia, come il Major Tom di Space Oddity di David Bowie, si ritrovano a orbitare intorno a una stanza, giocando con i rifiuti della società del consenso. E non è casuale che Lorenzo e Olivia imparino a fermarsi, imparino a dormire. Compiono il gesto di dissenso più radicale: si spostano, iniziano a muoversi lateralmente.

E insieme a loro il cinema bertolucciano si rivela in tutta la sua generosa e inesausta potenza. La geometria dello scantinato è reinventata costantemente come in un palco renoiriano dove le regole del gioco diventano epifania di possibilità.

Politicamente la posizione di Bertolucci è inequivocabile: per continuare a vivere si torna a vivere in clandestinità. Si osserva il coprifuoco, d’altronde immaginare che non ci sia sarebbe un’imperdonabile ingenuità, ma lo si incrina, si creano regole strategiche, atte a orientarsi una zona temporaneamente occupata per poi inventarne altre ancora. Si scende sottoterra, come Orfeo alla ricerca di Euridice (inevitabile pensare a Resnais vedendo Io e te). La morte va affrontata, proprio come Olivia che si fa la rota per liberarsi dalla scimmia sotto lo sguardo di Lorenzo che inizia a capire. Meglio: a sentire, a vedere. E vede Olivia che vomita, che si libera, che nasce ancora, come un insetto che non è possibile conservare in una teca. Che rinasce da se stesso.

E così, lontani dal mondo, ma nel cuore di tutto, spostati qualche metro sotto il livello della strada, Lorenzo e Olivia, danno vita alle loro memorie del sottosuolo da futuro anteriore. Loro lavorano per l’umanità anche se magari non lo sanno (ancora).

Bertolucci, però, non si fa illusioni. Non si sfugge al mondo. E quando dall’oltremondo si torna alla luce del sole di un alba attonita, si torna sempre con un po’ di morte addosso, quella morte che ti dice del tuo corpo, di ciò che sei. Infatti Olivia si allontana con l’Ero in tasca.

Con una follia visionaria degna di un Ophüls da camera, Bertolucci rivendica il primato del cinema. Nello spazio angusto dello scantinato si muove con libertà rosselliniana conservando negli occhi arabeschi sensoriali e percettivi piranesiani. E quando i due protagonisti sono di nuovo sulla strada, un dolly si eleva maestoso per inchinarsi commosso di fronte al separarsi-ritrovandosi per sempre di Lorenzo e Olivia.

E, incanto!, il mondo sembra davvero di vederlo per la prima volta attraverso lo sguardo del maggiore Tom ci ricorda che

This is major Tom to ground control
I’m stepping through the door
And I’m floating in a most peculiar way
And the stars look very different today

(26 ottobre 2012)



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