Il film della settimana: “J. Edgar” di Clint Eastwood

Giona A. Nazzaro

L’ultima immagine della stagione finale di 24, è lo sguardo che Jack Bauer rivolge verso il satellite spia che Chloe spegne per pochi minuti prima che inizi l’ultima caccia all’uomo. Quella che non vedremo. Nell’arco di otto stagioni, il serial 24 ci ha condotto non solo nei recessi più oscuri della politica statunitense, ma ha evidenziato anche come cambia il concetto stesso di guerra. 24, al di là delle facili polemiche sul suo essere “reazionario”, è la serie che maggiormente ha lavorato sull’idea di come il tempo, nelle mani del controllo, non sia ormai altro che il tempo dell’informazione e come, di conseguenza, la rappresentazione del tempo, diventi, di fatto, gestione dell’informazione. A ben vedere, si tratta dello scenario anticipato da William S. Burroughs in È arrivato Ah Pook. La durata del tempo si misura con la circuitazione della valuta dell’informazione.

Con J. Edgar Clint Eastwood muove alla radice stessa di questa ideologia dell’organizzazione del mondo. Su J. Edgar Hoover, il lider maximo dell’F.B.I., sono fiorite leggende a partire dal suo odio per i comunisti, il movimento per i diritti civili degli afroamericani, l’inimicizia feroce nei confronti di Robert Kennedy e, soprattutto, il suo enorme archivio segreto nel quale conservava, a quanto pare, schede su tutto e tutti. Il controllo prima di tutto. Clint Eastwood, che da anni ormai inanella capolavoro su capolavoro, anche quando come nel caso di Invictus e Hereafter, la critica più superficiale vorrebbe insinuare cadute di tensione, attraverso la figura di Hoover, sposta ancora più in avanti la sua personale scrittura del suo Libro Americano dei Morti.

Per anni su Eastwood sono pesate le fortissime accuse di fascismo che, all’alba di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, sono piovute sull’attore e regista. Grazie a Jean-Luc Godard, che nel 1985 dedica il suo film Detective a Edgar Ulmer, John Cassavetes e Clint Eastwood, viene finalmente meno la pressione del politicamente corretto sul protagonista della leoniana trilogia del dollaro. Eastwood, finalmente, è riconosciuto come erede, e probabilmente unico regista in grado di proseguire, la grande tradizione della narrazione cinematografica statunitense classica. Anche se le resistenze nei confronti delle opere più avanzate linguisticamente come Hereafter, inevitabilmente richiamano alla memoria l’astio di una parte della critica di ieri.

Dall’interno dunque di questa posizione, Clint Eastwood ha saputo maturare una personalissima poetica dell’assenza e del fantasma come riflessione politica sull’oggi.

J. Edgar, in questo senso, collocandosi nel cuore stesso del potere americano, all’alba della sua costruzione come ideologia stessa, proietta una luce completamente nuova su Eastwood e sul suo rapporto straziante e lucidissimo con la violenza.

Se da un lato in Eastwood il dilemma con la violenza è mediato attraverso un nichilismo poetico che astrae dal tessuto della mitologia western il conflitto fra wilderness e civilization, esemplificato dal finale di Ombre rosse, per intenderci, proiettandosi nelle dinamiche della modernità attraverso la reinvenzione del paesaggio americano operato da Jack Kerouac e gli altri beat, dall’altro è sempre stata presente l’urgenza del superare la dannazione della violenza originale americana. E non è un caso che al termine di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, Dirty Harry getti via con disprezzo il distintivo della polizia.

Nel corso degli anni più e più volte Eastwood ha chiarito il senso di quel gesto, che non era certo una richiesta di un pugno di ferro contro criminali e altre spinte insurrezionali. Gran Torino, infatti, sigilla una volta per tutte, il senso di quel gesto con l’olocausto volontario del corpo e dell’immagine del regista che muore fingendo di estrarre la leggendaria 44 Magnum. Come dire che la violenza va deposta unilateralmente e per primi. È questa l’unica possibilità, politica, che ancora ci resta. Ed è una possibilità tutta da giocare.

Con J. Edgar, il cinema di Eastwood, mette in scena, come in una seduta spiritica, la nascita del monopolio della violenza americana come scena primaria di quella che oggi conosciamo come società dell’informazione. Il regista, partendo dalla consapevolezza della propria iconografia e mitologia, ha infatti sviluppato nel corso degli anni un costante dialogo con la propria finitezza che con il tempo è andato assumendo i contorni di una riflessione dolente sugli Stati Uniti. I fantasmi sono il legame che unisce il corpo alla storia. E il corpo stesso diventa il medium attraverso cui evocare l’assenza di tutti gli altri corpi. Evocare quindi il nome di Hoover, nome che ha dato luogo a infinite teorie cospirazioniste e che, negli ultimi anni è stato uno dei protagonisti dell’agghiacciante trilogia di James Ellroy iniziata con American Tabloid e terminata con Blood’s A Rover, significa di fatto mettere in discussione tutto l’apparato della legge e dell’ordine. Tant’è vero che prima della sua distribuzione negli Usa, c’è stato persino qualche sterile tentativo di polemizzare con Eastwood a partire da cose acclarate come l’omosessualità e il travestitismo di Hoover.

Con J. Edgar, Eastwood compie un’operazione radicale. Non solo mette in scena l’origine della violenza americana, quella che Burroughs definiva “il cattivo americano”, ma, contemporaneamente, interrompe il legame che lo lega a essa. L’intuizione profonda che l’organizzazione della violenza in un tempo alternativo, il tempo dell’informazione che solo può contenere il monopolio della violenza, conduca direttamente a un eterno presente della violenza è l’immagine perfetta di quella guerra infinita, continua, al terrorismo proclamata da Bush Jr. all’indomani del 9/11.

Con J. Edgar Clint Eastwood compie uno straordinario esorcismo lungo le catene del tempo, creando una rapsodia mnemonica che s’intreccia senza alcuna forzatura nei corpi e nei volti. Eastwood, come nell’incompreso Mezzanotte nel giardino del bene e del male, crea uno spazio mentale assoluto nel quale il suo sguardo si muove con libertà inaudita, come di un pensiero in grado di farsi cinema senza passare attraverso la mediazione della forma cinema.

Come i grandi poeti americani di una volta John Dos Passos, Allen Ginsberg, Eastwood crea un poema visionario che chiamando sul banco dei testimoni i fantasmi di ieri, chiede all’oggi di dichiararsi. E la sua voce risuona inconfondibile e forte, mentre si fa largo fra i fantasmi, riconoscendo se stesso come fantasma che appare sulla soglia del tempo dell’oggi.

(5 gennaio 2012)

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