Il film della settimana: “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino
Giona A. Nazzaro
Paolo Sorrentino è un cineasta che ha il vizio di pensare in grande. Il che significa che a volte manca clamorosamente il bersaglio come nel caso della trasferta statunitense che, a dispetto del titolo inglese, non era e non è il luogo d’elezione del cinema sorrentiniano.
Annunciato da quel fulmine a ciel sereno che è stato L’uomo in più, a nostro avviso a tutt’oggi l’esito più convincente del cinema del regista, Sorrentino ha saputo prendere posto in seno al cinema italiano contemporaneo grazie al suo spiccato gusto per la composizione dell’inquadratura e il piacere contagioso di una narrazione che non teme di corteggiare l’eccesso e il grottesco. Non è un caso che già con Le conseguenze dell’amore Sorrentino abbia inteso dimostrarsi autore in grado anche di ragionare per sottrazione offrendo a Toni Servillo un ruolo in netta controtendenza rispetto alla sua possanza fisica.
Paolo Sorrentino, in questo senso, è senz’altro uno dei pochissimi registi italiani che ragiona in termini globali. Pur profondamente italiani, i suoi sono film pensati per un mercato ampio, globale, e in particolar modo, europeo. A Sorrentino non interessa il cinema italiano in quanto nicchia di mercato ma in quanto dismisura di una provincia dell’impero che, muovendo dalla propria irriducibile specificità, si colloca in un alveo dove i numi del cinema europeo, che siano Ozon o Haneke o Kechiche, sono i suoi interlocutori diretti e privilegiati.
In questo senso non si può non apprezzare lo sforzo produttivo che sta dietro ogni suo film. Sorrentino non usa l’italiano come narcisismo del limite di un cinema incapace di guardare oltre Lugano, ma come strumento privilegiato per ricordare e affermare una possibilità di cinema, il cosiddetto cinema d’autore industriale, che è stato sempre il fulcro della nostra produzione.
Ciò che intriga e appassiona nel cinema sorrentiniano è questo duellare fra tentazione della norma e hybris poetica. Quando trionfa la hybris, come nel caso de L’amico di famiglia, forse il suo film più inquieto e misterioso, ci si ritrova di fronte a un cineasta davvero unico. Invece quando trionfa il buon senso della produzione formattata, come nel caso de Le conseguenze dell’amore, ci si confronta con una sorta di esperanto d’autore di matrice europea (ossimoro inevitabile) che se da un lato riesce a dialogare perfettamente con il pubblico dei festival internazionali, lo fa cedendo a una sorta di formalismo tanto elegante quanto a tratti esangue.
Non è un caso che Il divo operi una torsione formale audace, ibridando influenze del cinema di Hong Kong, con tagli di montaggio da clip e veloci sintesi degne di Oliver Stone, permettendo così al film di raccontare cose italiane in forma, appunto, “internazionale”. E in questo senso Il divo è senz’altro il suo film più strategico, divertente e compiuto proprio in relazione all’equilibrio ottenuto fra hybris e norma.
Infatti, il problema di fondo del cinema di Sorrentino è da sempre il dover trovare una sintesi fra la vocazione alla scrittura e il movimento della macchina da presa. Essendo uno dei pochi cineasti che trova e prova un piacere visibile nel muovere la macchina da presa, Sorrentino si trova di fronte al dilemma di affidare a questi stessi movimenti il discorso del suo film.
Paradossalmente contenutista per essere dotato di un visivo così articolato, Paolo Sorrentino si dibatte fra il piacere dell’immagine e il dovere della parola. E La grande bellezza esemplifica perfettamente questo conflitto che anima il suo cinema.
Stare a lamentare ciò che c’è o che manca ne La grande bellezza è un esercizio fine a se stesso. Inteso come un poema visivo sinfonico, Paolo Sorrentino con il suo film è come se avesse voluto raccontare un momento cruciale del nostro paese dalla trincea del benessere e del privilegio. Ovvio che il regista partecipando del medesimo mondo che racconta ne è inevitabilmente parte in causa e per certi versi questa è proprio una delle qualità contradditorie più interessanti del film stesso.
Bene ha fatto Servillo a evidenziare le profonde differenze fra il Marcello della dolce vita e il suo Jep Gambardella: il boom economico fa tutta la differenza del mondo. L’Italia non è più l’Italia, ammesso che l’Italia sia mai stata… l’Italia.
Quindi Sorrentino filma Roma come una necropoli. Più Satyricon che dolce vita a dire il vero. Morti viventi che si compiacciono della loro putrefazione. Anzi: che la esibiscono come uno stato sociale. Sorrentino la può filmare perché è il cantore di questa fine del mondo che conosce dall’interno.
Teso fra una contemplazione ieratica incantata, i dolly volanti dell’incipit, e una tensione a voler fustigare i costumi (l’increscioso episodio con Anita Kravos, una delle migliori attrici italiane degli ultimi anni), Sorrentino si ritrova fra le mani un film a tratti potente e fascinoso (l’episodio delle chiavi su tutti, il rito del Botox officiato da Popolizio) alternato a momenti francamente irrisolti (l’inutile prelato del pur ottimo Herlitzka, i flashback, la suora-zombi…).
A nostro avviso il senso del film sta tutto nelle passeggiate di Servillo, attore che ha regalato al cinema italiano alcune delle più belle camminate degli ultimi anni di cinema italiano.
In quelle camminate emerge lo stupore e l’incanto del cinema di Sorrentino che si libera del suo discorso e trova una leggerezza inusitata, la medesima leggerezza che gli permette di esaltare la malinconia di Carlo Verdone, godere della ferocia di Carlo Buccirosso e contemplare il venire meno di Sabrina Ferilli attraverso un taglio di montaggio che sorprende per la sua sintetica efficacia.
Regista d’attori e di movimenti di macchina, in Sorrentino vivono e resistono alcune delle migliori caratteristiche del cinema italiano di una volta e al tempo stesso, inevitabilmente, alcune delle contraddizioni odierne mai risolte.
La grande bellezza, al di là, delle partigianerie che impediscono sempre di ragionare sullo specifico filmico, recupera da un lato la sensualità delle opere migliori di Sorrentino e dall’altro tenta di ricontestualizzare il suo respiro potentemente formalista che sovente entra in conflitto con la sua voglia di “dire”.
Resta il fatto che La grande bellezza è uno dei pochi film italiani a grande budget che ha tentato di porsi il problema dell’oggi sia come discorso sulla forma (qualsiasi cosa se ne pensi) che come discorso vero e proprio (contenuto). Ovvio che ci siano delle frizioni; ovvio che non tutto torni; ovvio che il risultato inevitabilmente è imperfetto. Segno questo, a nostro sentire, che c’è vita.
Quindi, al netto di tutte le considerazioni, resta, e ci pare un dato abbastanza incontestabile, un piacere del cinema che Paolo Sorrentino accoglie abbracciando anche tutti i rischi legati a esso.
La grande bellezza è anche questo piacere intossicante di un film follemente imperfetto attraversato da lampi di vera malinconia e distanza. Un film che rischia e paga in prima persona. Di conseguenza un film con il quale si può ancora dialogare.
(30 maggio 2013)
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