Il film della settimana: “La polvere del tempo” di Theo Angelopoulos
Giona A. Nazzaro
"Ogni volta che manca una prospettiva storica, si finisce in mano alle banche". Come dare torto a Theo Angelopoulos che purtroppo quando passa dietro la macchina da presa smarrisce la lucidità icastica che gli permette di fissare in poche parole il significato profondo di un momento storico?
Quello di Theo Angelopoulos è un cinema eroicamente fuori tempo massimo che continua ossessivamente a tessere immagini sospese tra passato e presente, in un discorso che in realtà ha assunto ormai le forme di una paradossale trenodia monologante che invoca costantemente i fantasmi di coloro che dalla storia sono "stati spazzati via" (come dichiara il personaggio di Jakob Levi, interpretato da Bruno Ganz).
La polvere del tempo, secondo tassello della trilogia inaugurata dal regista con La sorgente del fiume, è un film esemplare in questo senso. I piani sequenza di Angelopoulos, lontani ormai dall’incandescenza politica e formale che potevano avere i capolavori del cinema moderno come I giorni del ’36 o La recita, ma senza dimenticare Alessandro il grande e I cacciatori, intrecciano fra di loro diversi piani temporali: la morte di Stalin e la destalinizzazione, il ’68, il Vietnam e la caduta del muro di Berlino. Il tutto sulle orme di due amanti, Eleni e Spiros, che s’inseguono lungo le spirali del tempo la cui avventura umana ed esistenziale diventa un film, continuamente interrotto, diretto da A (Willem Dafoe), regista americano e figlio dei due.
Stando alle attuali categorie estetiche dominanti, Angelopoulos firma il film perfetto del regista disilluso dalla storia e orfano delle grandi utopie politiche. Come tutti i cineasti emersi sull’onda lunga del ’68 e operanti in paesi dominati da dittature, pensiamo a Carlos Saura e Miklos Jancso, anche Angelopoulos, abituato a raccontare storie in maniera ellittica, attraverso uno stile che era soprattutto schermo per un discorso altro, orfano del grande partito comunista, si ritrova, per usare una metafora che potrebbe benissimo essere farina del sacco di Tonino Guerra, come un viandante nella nebbia (e molte delle debolezze del film sono senz’altro da imputare alla poetica di Guerra).
La polvere del tempo è una malinconica catastrofe. Un film straordinariamente sbagliato in grado di conquistarsi un’attenzione sofferta, grazie alla sua assoluta difformità rispetto al cinema attuale. Ben inteso: siamo dalle parti di un’accademia da coproduzione internazionale che si regge esclusivamente sul peso dell’autore di turno e dei nomi che questi, a sua volta, riesce a convogliare nel progetto. Ciò che di vivo c’è nel film, esiste nonostante tutto e non per merito delle condizioni estetico-produttive.
Il film di Angelopoulos procede di scena madre in scena madre. Dalla morte di Stalin al concepimento di A in una carrozza del tram davanti alla statua del leader deceduto per poi passare direttamente in Siberia e scivolare sempre più nel tempo, il film affastella movimenti di macchina e di massa che a tratti sembrano ricordare il grande cinema sovietico (e non solo). Come la folla che prima si raccoglie sulla piazza per ascoltare la ferale notizia della morte di Stalin – mentre un dolly memore di Bertolucci sale al cielo per abbracciare la piazza – e poi si divide (come un mare ridotto in mille rivoli differenti) secondo una modalità coreografica che inevitabilmente richiama alla memoria Pudovkin.
Seguire il nuovo film di Angelopoulos in tutte le evoluzioni formali e riflessioni politiche è come abbandonarsi al personalissimo inventario di un cineasta, anch’egli in cerca della fiamma misteriosa della regina Loana. Ci si muove fra scatoloni polverosi di memorie e miti fondativi come l’eterno femminino. Come (continuare a) raccontare che siamo ancora qui, anche se di fatto non lo siamo poi tanto?, sembra chiedersi il regista greco?
L’impotenza di Angelopoulos che si trova a creare immagini alla fine della storia, anche se ovviamente la storia non può che continuare, è tematizzata dalla figura di Willem Dafoe che interpreta A, un regista alle prese con un film interrotto i cui pezzi sono dispersi attraverso paesi e continenti.
Come Fellini, anche Angelopoulos evoca i teatri di Cinecittà come ultimo barlume di mitopoiesi ancora possibile. Eppure ciò che emerge da La polvere del tempo è un senso di esilio ineluttabile: per sempre fuori dalla storia ma anche sempre fuori dal mondo. L’ebreo socialista Jakob Levi si suicida gettandosi da un battello che evoca L’Atalante di Jean Vigo mentre i tornelli agli aeroporti diventano degli scanner che ti denudano davanti a tutti. Cosa cambia rispetto alle dittature del passato?, sembra chiedere il regista. Ma sappiamo che si tratta della domanda di una persona, di una generazione, di un intellettuale orfano di un’idea. Ed è proprio l’imbarazzato ma anche arrogante candore della quest poetica di Angelopoulos a fare de La polvere del tempo un film tanto sbagliato quanto suo malgrado affascinante offrendosi come testo limite per indagare la fine di un’idea intesa anche come conclusione di un’idea di cinema e politica.
Probabilmente Angelopoulos non realizzerà più film all’altezza dei suoi capolavori del passato o di straordinarie riflessioni filosofiche come Il volo (interpretato da un immenso Marcello Mastroianni). Probabilmente La polvere del tempo non è altro che l’errare senza meta di Jakob Levi che s’ostina ancora a cercare la sua Eleni per tenersi in vita.
La polvere del tempo è davvero un corpo estraneo inserito nei dibattiti cinematografici odierni. E se l’inadeguatezza politica solletica adesioni donchisciottesche, la sua estetica professorale evidenzia una stanchezza che sarebbe sbagliato condonare. E che sarebbe ingeneroso soprattutto nei confronti del cineasta che Theo Angelopoulos è stato.
(31 maggio 2011)
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