Il film della settimana: “Ladri di cadaveri – Burke & Hare” di John Landis
Giona A. Nazzaro
Guai a dire a John Landis che la sua parabola all’interno dell’industria hollywoodiana assomiglia per certi versi a quelli dei grandi del passato come Orson Welles o Budd Boetticher. Da cineasta profondamente americano, teme come la peste le beatificazioni critiche europee, anche se ovviamente gli fanno piacere (sa benissimo di meritarle…), ma allo stesso tempo nutre una sana sfiducia nei confronti dell’effetto museale che queste inevitabilmente provocano nei produttori USA, sempre più miopi, sempre più lontani da un’alfabetizzazione cinematografica forte.
Come i suoi colleghi John Carpenter e Joe Dante, John Landis è stato (é…) uno dei grandi sovversivi dell’immaginario collettivo che a partire dalla fine degli anni Settanta ha rinnovato Hollywood iniettandogli, per l’ultima volta, un’irresistibile vocazione alla disubbidienza e un amore irresistibile per un cinema creativo, originale, guerrigliero e, al tempo stesso, intimamente classico. Un’epoca brevissima (gli anni che coprono l’arco 1979-1982) che ha prodotto film che sono rimasti negli occhi, nei cuori e nei cervelli di una generazioni di cinefili che li ha trasmessi alla successiva.
Per buona parte degli anni Ottanta John Landis ha continuato a lavorare all’interno dell’industria realizzando film sia schiettamente hollywoodiani (nel senso più alto della definizione) che provocatoriamente politici: come se Berkeley, le Pantere Nere, il Watergate e le lotte per i diritti civili si fossero incarnate nel corpaccione sensuale e insurrezionale di John Belushi o nelle transmutazioni a vista del suo lupo mannaro americano a Londra.
Rispetto al dilagante citazionismo attuale, John Landis non è mai stato un banale cineasta di secondo grado che si divertiva a mettere in luce i propri gusti e le proprie ossessioni. Da straordinario modernista e cultore di una tradizione testuale che a Hollywood ormai praticano in pochissimi, Landis ha sempre lavorato all’interno del linguaggio e del fare cinema. Il linguaggio come insieme di convenzioni da scardinare ma allo stesso da tutelare come pratica (e memoria) condivisa. Proprio come Joe Dante, la cui fluency cartoonesca è una vera e propria sintassi o il classicismo hawksiano di John Carpenter. John Landis ha sempre utilizzato politicamente l’insieme dei mitologemi del cinema di genere come armamentario critico evitando così di praticare gli esorcismi autoreferenziali, affascinanti quanto si vuole, ma inevitabilmente fine a se stessi di tanto cinema di ieri e di oggi.
Con Ladri di cadaveri, John Landis ritorna finalmente al cinema maggiore dopo un esilio vissuto a cavallo fra televisione e piccoli ma geniali documentari come Slasher. E a differenza di tanti colleghi che si arruginiscono se non respirano l’aria dei grandi set e delle troupe numerose, John Landis, come uno straordinario musicista blues (uno di quelli che suonano anche quando non suonano…) non solo non ha perso la mano ma nemmeno l’orecchio. E dirige la sua ballata macabra con una scatenata allegria malinconica alcolica degna del miglior Shane McGowan; come se Ian Dury avesse deciso di fare una rimpatriata con i Fairport Convention mentre i Chieftains chiedono di essere ammessi alla festa.
Proprio così, ma più bello ancora.
Nel rievocare le gesta di Brendan "Dynes" Burke e William Hare, immigrati irlandesi in Scozia che per sbarcare il lunario procuravano carne da dissezione al dottor Robert Knox, luminare del Ediburgh Medical College, Landis firma un film degno di figurare al fianco dei suoi classici più celebrati. Film esultante e nerissimo, che si apre e chiude con un’esecuzione capitale, mette in scena gli albori della società industriale attraverso l’assolutismo di un razionalismo scientifico che a distanza di relativamente poco tempo avrebbe prodotto ben altri orrori. Landis è geniale nel mettere in scena una società che basa il suo sapere (e la sua ansia di progresso) sulla dissezione di cadaveri (e non conta poi tanto come questi corpi siano diventati cadaveri…).
Situato agli albori della società industriale, un’alba nera e caliginosa (altro che era dei Lumi…), con le sue masse lerce e affamate che di lì a poco sarebbero state arruolate dalle fabbriche, il film di Landis è una precisa e affascinante vivisezione della nascita dello spirito del capitalismo sorto dall’ideologia delle sorti magnifiche e progressive dell’assolutismo scientifico. Il corpo è la prima e l’ultima merce di scambio. La materia prima indispensabile. La commedia umana (tragedia…) nasce dall’esigenza di soddisfarne i bisogni e gli appetiti. Con affondi satirici degni di Swift, Landis mette in scena l’intrinseco cannibalismo del capitalismo industriale e la sua profonda e inarrestabile pulsione di morte (le esecuzioni che virgolettano il film…). Senza contare che il tutto è sempre osservato attraversato l’ottica di un’ansia di fare teatro, di raccontare, di guardare che rimanda immediatamente alla società dello spettacolo come inevitabile corollario del capitalismo. Senza dimenticare, infine, che in tutto questo, Landis mette in scena anche la nascita della fotografia, che documenta corpi fatti a pezzi per il progresso scientifico ma che già allude alla morte al lavoro intuita da Jean Cocteau.
E così, fra un mondo fatto di fabbriche a venire, assolutismo razionalista, autocannibalismo di un mondo retto dalla domanda e dall’offerta e il nascente cinema, il corpo diventa ancora una volta il segno di un’umanità impossibile da rimuovere ma già avviato al processo di reificazione di massa. Il cinema, come sempre, non può che testimoniare di ciò che accade: perché la carne è triste…
Con Ladri di cadaveri, John Landis dimostra ancora una volta il suo incredibile talento e uno sguardo radicale e articolato in grado di mettere in scena i nodi cruciali della nostra società attraverso un irresistibile passo da commedia (nerissima…).
Autentico cinema politico. See you next Wednesday, John!
A CIASCUNO IL SUO… BUFFONE
Scampoli di Landis-pensiero
"Noi americani abbiamo avuto per otto anni George W. Bush Jr e quindi non me la sento di dire a voi cosa dovete fare con Berlusconi. Sono americano e non conosco bene le faccende italiane. Ciò che posso dire e che noi abbiamo avuto il nostro buffone e voi ora avete il vostro. Ciò che mi preoccupa davvero e che non mi sembra che ci sia una reale opposizione al potere di Berlusconi. Comunque ciò che tutti i politici temono è il senso del ridicolo. Probabilmente a Gheddafi non farebbe piacere sapere cosa penso di lui. Che lo ritengo un imbecille e un assassino. Ma sono convinto che sarebbe ancora più arrabbiato se sapesse che lo ritengo un buffone, che le sue arie mi fanno morire dal ridere. I potenti e i politici vogliono essere venerati, temuti e rispettati. Anche odiati. Non tollerano però che si rida di loro. Pensate a Charlie Chaplin e a Il grande dittatore. Pare che Hitler dopo aver visto il film abbia detto: Quello lo voglio morto! Che soddisfazione per Chaplin! Hitler lo vuole morto e lui lo spernacchia! In questo senso il più grande film politico di tutti i tempi è La guerra lampo dei fratelli Marx. Tutto ciò che si deve sapere sulla politica, sta in quel film.
Su Berlusconi bisognerebbe fare un film comico ma chi lo produrrebbe oggi? Dove potrebbe essere proiettato? Chi lo comprerebbe? D’altronde ha messo la sua gente alla guida della Rai per tenere tutto sotto controllo. Per questo e altri
motivi non credo al mercato, che ritengo un’invenzione giornalistica. I produttori danno soldi a un regista nella speranza che porti loro altri soldi. Se funzionano i film con gli zombi se ne produrranno sino a quando la gente non andrà più a vederli e si passa alla prossima moda. Ci sono registi che assecondano questi criteri, che riescono a lavorare anche molto ma sono proprio quei registi che non valgono niente. Ho la fortuna di avere sessant’anni e ho capito che l’unico criterio che conta davvero nella valutazione di un film è il tempo. Sino a un po’ di tempo fa i miei film erano considerati perlopiù della merda oggi, grazie alla mia età, scopro che sono dei "classici". È proprio come diceva John Huston: "I registi, le prostitute e gli edifici ci guadagnano con il tempo".
(a cura di Giona A. Nazzaro)
(24 febbraio 2011)
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