Il film della settimana: “Le meraviglie” di Alice Rohrwacher
Giona A. Nazzaro
Corpo celeste, proprio come una piccola costellazione, conteneva molte promesse. L’asprezza e l’audacia di un esordio felice eppure durissimo, presentato alla Quinzaine des réalisateurs, metteva in luce uno sguardo originale e potente, alieno dai manierismi dominanti la grande parte della produzione nazionale.
Lo sguardo posato sul territorio, l’attenzione alle relazioni, la presenza di un paganesimo sotterraneo e di una carnalità strisciante in grado d’insinuarsi negli interstizi più segreti dei gesti e delle parole, sono tutti elementi derivati da una forte tensione politica nei confronti del cinema del reale. Uno scarto deciso rispetto alle consuetudini del cinema italiano che di fatto, nelle sue articolazioni più evidenti, ha dimenticato o addirittura rimosso il territorio con tutto ciò che questa scelta inevitabilmente comporta.
Le meraviglie, dunque, film atteso con grande trepidazione e curiosità, non solo conferma quanto di positivo Corpo celeste aveva fatto intuire, ma onora le promesse che quel film conteneva come un annuncio di futuro.
Al netto delle cronache festivaliere e delle inevitabili banalità riguardanti che inevitabilmente un premio importante evoca, resto all’attivo non solo un’opera che sostanzialmente rappresenta un passo avanti importante nel tragitto autoriale della Rohrwacher ma, soprattutto, un film che rilancia le potenzialità di un talento inquieto animato da uno stupefatto candore che si concede il lusso della commozione e della sospensione.
Rimproverare al film la sua libertà strutturale, come se ogni film dovesse essere vincolato alla struttura in tre atti come previsto dai manuali di sceneggiatura, significa, sostanzialmente, non comprendere la natura dell’impresa della Rohrwacher.
Lungi dal volere banalizzare l’apporto che una sceneggiatura solida può offrire a un film, ma basterebbe citare film come Acab o serie come Romanzo criminale per farsene un’idea, è pur vero che esiste un cinema che vive soprattutto al di fuori del perimetro delle regole del cinema scritto. Ciò non vuol assolutamente significare che si debbano perdonare sciatterie o presunzioni autoriali in nome di una presunta libertà che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno alcuna ragione di esistere.
Rimodulare lo sguardo rispetto al gesto filmico del regista; ossia tentare di calarsi in un altro mondo attraverso lo scarto differenziale che il film stesso offre come percorso e avventura.
Le meraviglie, film che sin dal titolo postula la sospensione dell’incanto e dello stupore, è un film tutto di nervi e d’incanti, e inevitabilmente, tocca anche qualche nota stridula (relativa soprattutto alla prestazione alquanto monocorde di Sam Louwyck). Imperfezioni, evidentemente, che non pregiudicano l’esito dell’opera, così come non arrecano danni le annotazioni felliniane del nome della protagonista e un cammello la cui inclusione si giustifica evidentemente solo in relazione all’effetto straniante.
Soffermarsi su questi pochissimi elementi e non sottolineare la totale riuscita dell’escursione notturna in barca o la reinvenzione del set televisivo nella grotta (intuizione visionaria che vale tutto Reality di Matteo Garrone) equivale a non avere compreso la cifra di un’opera radicale nella sua singolarità.
Le meraviglie, infatti, è una sorta di poema lirico neorealista, attraversato da striature di una dolce follia che rimandano costantemente a una dimensione ulteriore dell’esistenza della quale la natura, nella sua asprezza, è solo un potente ed evidente segno.
Nella caverna dove va in scena lo spettacolo televisivo, come se il mago di Oz incantasse ancora una volta i suoi sudditi pur rivelando la natura del suo gioco, s’intrecciano le forze ctonie di una terra ancora non domata, e quelle invece di un mondo astratto eppure drammaticamente, matericamente concrete, esperibili nella presenza del lavoro del set televisivo.
Alice Rohrwacher non demonizza la presenza della televisione, ma la cala, come una divinità altra, nel cuore di un pantheon nascosto alla vista, esperibile solo obliquamente. E le modalità attraverso le quali la regista filma Monica Bellucci sono davvero il rovescio femminile dello stupore felliniano stregato dalle forme di Donatella Damiani.
E tutto questo universo di segni, forme e linguaggi, ruota e prende vita nello sguardo di Gelsomina. È lei che conferisce esistenza alle cose del reale posandovi sopra il suo sguardo che mentre porta e rende la vita, sposta le linee del mondo per ipotizzare la possibilità di altre relazioni e, soprattutto, di altri racconti.
Il che rende dunque Le meraviglie un film importante e, pur prendendo moltissimi rischi, riesce a gestire con grande consapevolezza una materia narrativa e formale complessa.
È quest’audacia, che diventa libertà in grado di sostenere un progetto estetico compiuto, del quale è necessario rendere conto formalmente, in termini di scelte di cinema, che fa del film di Alice Rohrwacher un’opera degna di attenzione e, soprattutto, rispetto.
Anche questa volta, dunque, Alice Rohrwacher rilancia, attraverso l’esito e le potenzialità di un’opera complessa come Le meraviglie, l’idea di un cinema italiano in grado di lasciarsi alle spalle etichette e semplificazioni, collocandosi con determinazione in quello spazio aperto del cinema contemporaneo con il quale dialogare non è solo necessario e importante ma soprattutto bello.
(13 giugno 2014)
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