Il film della settimana: “Lincoln” di Steven Spielberg

Giona A. Nazzaro



La capacità di penetrazione nei meccanismi della politica del cinema americano è ammirevole. Negli ultimi mesi abbiamo avuto conferme a ripetizione della costatazione tanto ovvia quanto indiscutibile che l’unico cinema politico cui vale la pena di prestare attenzione è quello statunitense (se si prescinde dal lavoro di cineasti come Thomas Heise, Eyal Sivan, Avi Mograbi, Kevin Jerome Everson e altri ancora che nel corso degli anni hanno intrecciato con il reale un dialogo serrato, fitto, appassionante).

Poter confrontare a così breve distanza di tempo film diversissimi tra loro come Argo, Django Unchained e Zero Dark Thirty offre la possibilità di osservare come la materia politica, sottratta alla forza di gravità caratteristica della cronaca e dei commenti di attualità, risuoni di accenti completamente nuovi quando è calata nel campo di trazione della narrazione e dell’astrazione formale.

In questo senso è proprio il cinema lo strumento privilegiato attraverso il quale l’immaginario collettivo ripensa e inevitabilmente rimette in scena la storia recente. Non come esorcismo, anche se questa è una pratica altrettanto appassionante, basti pensare alla saga di Rambo sulla quale bisognerebbe, prima o poi, fare dei ragionamenti privi di pregiudizi, ma proprio come luogo dove, attraverso la forma e il linguaggio, si può operare un crash fra diverse istanze narrative e specificità formali.

Basterebbe osservare con la dovuta attenzione la sigla di Homeland, una delle serie più sorprendenti degli ultimi anni, per osservare come è restituita al presente tutta la strategia della guerra al terrore. Riannodando nell’arco di pochi minuti Reagan a Obama attraverso il feticismo del news footage storicizza elementi eterogenei, riconducendoli all’oggi, attraverso un gioco di mimetismo tanto spregiudicato quanto appassionante.

La politica nel cinema americano è dunque immediatamente una questione di mitologia da reinventare (o da infrangere, come nel caso eclantante di Django Unchained).

Non è un caso quindi che Steven Spielberg inauguri il suo maestoso e rosselliniano Lincoln con un furente corpo a corpo all’ultimo sangue fra nordisti e sudisti quasi come se fosse un presagio dello sbarco a Omaha Beach. Nella storia si entra attraverso la porta principale del massacro. Di conseguenza non sorprende neppure che è con uno straordinario movimento all’indietro che Abramo Lincoln è introdotto nel corpo del racconto: come se dal generale, la strage della guerra, si passasse al particolare della politica. Lincoln è presentato come un’icona. Attraverso una serie di dettagli hitchcockiani, con una ripresa di quinta che punta lo sguardo sul controcampo. Quello della guerra, certo, ma soprattutto, quello dei militari afroamericani, il corpo stesso della contesa politica.

Con una sapienza straordinaria, Spielberg passa dalla storia agli uomini che lavorano nella politica e che di conseguenza producono la storia stessa. La precisione, e la giustezza, dei tagli di montaggio, dei piani e delle profondità di campo adottate, sono il segno di un processo creativo che interfacciandosi con l’iconografia tradizionale, tenta consapevolmente di reinventarla per diventare esso stesso nuova oralità, mitologia ulteriore, partecipazione democratica nel discorso della politica. Un nuovo racconto, una nuova storia, se si vuole.

Lincoln, più che essere un film nel solco della tradizione di John Ford, anche se il Lincoln fordiano tenace e segaligno di Alba di gloria riverbera nella silhouette di Daniel Day-Lewis, sembra riallacciarsi più a certe atmosfere tardovittoriane di William Wyler o addirittura dell’Orson Welles degli Amberson. Non tanto per una mera questiona di adesione mimetica di eventuali citazioni o manierismi calligrafici, quanto per la precisione con la quale è colta la dimensione umana e sociale di una classe sociale alle soglie del Novecento.

Gli interni di Lincoln, il modo in cui Spielberg organizza drammaticamente gli spazi intorno al suo protagonista, la maestria con la quale sono filmate e utilizzate le fonti di luce, il dettaglio degli arredi, non sono tanto il segno di un perfezionismo fine a se stesso quanto la precisione documentale di una ricostruzione storica volta al presente. Ed è esattamente in questo punto che il modernismo di Wyler e Welles si offre come possibile chiave di lettura per illustrare al meglio il processo compositivo di Spielberg.

La lezione di Lincoln, infatti, con il suo accento fortissimo posto sulla parola, il primato del confronto e della politica, vive di una necessità didattica e pedagogica che non è possibile non definire “rosselliniana”. Intendendo così la vocazione di un cinema tesa a illuminare e ad agire fra gli uomini in quanto lavoro e linguaggio.

Si parla molto in Lincoln. Si discute tantissimo. In un’epoca in cui la complessità dei fenomeni politici è costantemente banalizzata, la demagogia costantemente in agguato, il linguaggio ridicolizzato in omaggio a una presunta immediatezza universale, Lincoln ribadisce il primato della parola (senza occultare il fatto che Tocqueville aveva ben ragione quando pur ammirando il processo democratico vi scorgeva il rischio concreto della dittatura della maggioranza che diventa poi un sistema politico maggioritario). Il film di Spielberg riafferma la dignità della parola e lo fa attraverso una lezione di cinema sublime. Modernista e classica al tempo stesso, che rilancia ancora una volta la centralità della mitopoiesi cinematografica.

Inevitabile, infine, notare come un capolavoro come War Horse, alla luce di Lincoln, risulti essere una straordinaria prova generale, quasi un esercizio in vista della prova maggiore.

Lincoln è tutto ciò che il cinema americano può ancora essere: un vero e proprio incontro ravvicinato del terzo tipo con la storia.

(23 gennaio 2013)



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