Il film della settimana: “L’industriale” di Giuliano Montaldo
Giona A. Nazzaro
Un film controcorrente. Ma sul serio. Giuliano Montaldo, infatti, rispetto alla tendenza imperante nel paese di concentrarsi esclusivamente sulla commedia, con la grinta caratteristica degli uomini della sua generazione, non abbandona la presa. Così, mentre la maggior parte del cinema italiano segue i sorrisi blandi della cosiddetta neocommedia, tra immaturi pieni di soldi che se la spassano nella Grecia messa in ginocchio dalla crisi economica e borghesi che inseguono il mito della cotta adolescenziale, Montaldo ci ricorda qual è la realtà del paese in cui viviamo. E, soprattutto, che una volta in Italia si produceva un cinema di spessore ben diverso. Giuliano Montaldo pratica da sempre un cinema robusto, politico, all’americana. Basti pensare a quel gioiellino nero che è Gli intoccabili (1969) interpretato da John Cassavetes, Peter Falk e Gena Rowlands o Ad ogni costo (1967) che vanta nel cast il grande Edward G. Robinson. Questa sua sensibilità per lo spettacolo unita alla sua onestà intellettuale, ha fatto di Montaldo un cineasta in grado di raccontare il travaglio dei suoi e nostri anni attraverso un cinema sì politico ma anche intimamente popolare, in grado di dialogare con il pubblico, creando così una tensione dialettica forte e proficua. Non a caso opere come Dio è con noi, Sacco e Vanzetti e Giordano Bruno si presentano come titoli la cui forza polemica è direttamente proporzionale all’impatto spettacolare. Montaldo, questa sua capacità di narratore raffinato, l’ha conservata (e addirittura ampliata) passando a lavorare per la televisione. Il suo Marco Polo, un autentico kolossal politico (chi se le ricorda le polemiche della chiesa e della Dc?), oltre a essere una totale riuscita, è anche un triste promemoria di una strada che il servizio pubblico non ha osato continuare a percorrere. Di conseguenza non può non essere accolto con grande favore il ritorno di Montaldo dopo un periodo interlocutorio nel quale il regista sembrava avesse smarrito la sua vena. L’industriale ci riporta quindi ai tempi migliori del cinema del regista originario di Genova. Ed è un bene che una voce così limpida risuoni proprio oggi nelle stanze asfittiche di un cinema italiano che testardamente (tranne rare eccezioni come Martone e il recente Sollima) guarda sempre dall’altra parte. Montaldo no. Lui fissa il paese dritto in faccia. E ciò che vede non gli piace. Certo: non tutto fila via liscio ne L’industriale. L’incipit francamente maldestro nel quale si enuncia rapidamente una (discutibile) genealogia della crisi finanziaria francamente fa temere il peggio. Il regista, però, raddrizza subito la rotta. Sulle tracce di un imprenditore la cui azienda di famiglia rischia di essere divorata dalle banche, il regista traccia un ritratto feroce e documentario della terra desolata che è diventata l’Italia oggi. L’uomo, interpretato da un eccellente Favino, si muove nelle sabbie mobili di una classe sociale (l’altissima borghesia piemontese) che vorrebbe vederlo fallire. Lui non vuole cedere e poco alla volta perde il contatto con la realtà e con la donna che ama. Montaldo è molto abile nel gestire lo snodo della crisi sentimentale del protagonista. Individuando nella moglie un corrispettivo oggettivo dell’azienda che rischia di perdere, L’industriale instaura un’equazione delle merci impeccabile. Pertanto l’industriale che ama immaginarsi come dalla parte dei suoi operai, è forse lo è per davvero, nel momento in cui teme di perdere la moglie, il bene ultimo, come l’azienda d’altronde, inizia a percorrere una discesa agli inferi che lo condurrà a una dolorosa agnizione. E solo dopo avere toccato il fondo, la sua classe sociale lo riaccoglie trionfante nel proprio seno. Come direbbero i freaks di Todd Browning: uno di noi! Uno di noi! L’industriale, crudele ritratto di un incolpevole, nel senso proprio in cui potrebbe intenderlo Hermann Broch, è un film che radiografa, con grande acume, un momento di profonda crisi umana ed esistenziale del paese. La finanza e l’industria di un paese malato producono gente malata (e inevitabilmente alimentano la crisi). Montaldo non si fa illusioni. A pagare sono sempre gli ultimi. I sacrificabili, che sono sempre chiamati a fare sacrifici. Non è dunque alla buona imprenditoria, alla buona industria o a salvifici messaggeri del rinnovamento come Marchionne che possiamo affidare la riscossa. Infatti, se c’è una cosa che salta agli occhi, nel mondo grigio e desaturato de L’industriale, fotografato dall’ottimo Arnaldo Catinari, è l’incapacità della politica di incidere nuovamente nel tessuto del mondo della produzione e del lavoro. Non a caso l’universo del film assomiglia a un paesaggio da dopo-catastrofe… Ed è in questo paesaggio desolato, che si spegne con un rantolo, che vengono alla luce mostri incolpevoli come l’industriale. |
Non c’è scampo nel mondo impietoso dell’alta finanza dove l’accumulo del denaro è la legge del potere, che segna il discrimine tra chi sta sopra e chi sta sotto, tra chi domina e chi è dominato. È il mondo plumbeo degli affaristi e delle lobby finanziarie, che fagocita e conforma. Tutto si svolge a Torino, città storica della produzione industriale italiana. Una Torino che la macchina da presa fissa in bianco e nero tra qualche timido sprazzo di colore. Una Torino dove i luoghi della ricchezza contrastano con le fabbriche abbandonate e le periferie urbane sempre più estreme, abitate da reietti e lavoratori immigrati. Tutto fluisce come lo scorrere livido del Po, sulle cui sponde il protagonista sull’orlo del default spesso si reca per prendere forza da quel capannone, primo nucleo – mai ristrutturato ed è un suo cruccio – delle Officine Meccaniche Ranieri, fondate dal padre, immigrato dal meridione d’Italia, che col lavoro si è fatto strada fondando con i suoi operai l’azienda di famiglia. Ma i tempi della promozione e dell’emancipazione col lavoro e nel lavoro sono ormai lontani. E i fotogrammi delle manifestazioni (reali) della Fiom nell’era di Marchionne stanno lì a dimostrare la dolorosa cesura. Nicola ha fatto della fabbrica paterna un’azienda solida, con una sede prestigiosa. Un’impresa industriale con settanta operai, alcuni dei quali lo hanno conosciuto quando era ancora un ragazzo con i calzoni corti, come ricorda il saggio operaio Saverio (Giovanni Bisacca). Ma la crisi di Nicola intanto si è complicata. Quella lavorativa evidenzia la ben più profonda crisi del suo rapporto di coppia. Forse fino allora tacitata nel benessere di un mondo borghese dove l’affettività troppo spesso scivola sull’impermeabilità di una quotidianità che il bene-stare scambia con il bene-avere, facendo perdere di vista la gioia di ascoltarsi e parlarsi. Il mondo ipocrita della sopraffazione e dei rapporti di forza ha comunque avvelenato l’industriale dal volto umano, e proprio quando crede di aver salvato la sua azienda e il suo matrimonio, applica col “rumeno” la legge malata che ben conosce. Tutto si compra. 40 mila euro in pezzi da 50, offerti perché ritorni nella sua terra. Ma il giovane non accetta. E l’epilogo della storia, che di proposito non raccontiamo, è tanto sorprendente quanto doloroso. Giuliano Montando, l’autore di straordinari film come Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno, L’Agnese va a morire, si conferma maestro di impegno civile e di denuncia sociale, ma anche di quella penetrante capacità di analisi della psiche umana che ha caratterizzato I demoni di san Pietroburgo, le cui dostoevskijane magmatiche dicotomie continuano a irrompere ne L’industriale. E i loro tremendi effetti si stagliano nell’ultimo fotogramma che mostra il volto del bravissimo Favino con gli occhi colmi di pianto: presa di coscienza e assunzione di responsabilità. E forse spinta a vincere nella fatica del vivere, lo scacco matto che la vita ci riserva. |
(18 gennaio 2012)
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