Il film della settimana: “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo

Giona A. Nazzaro

Leonardo Di Costanzo è uno dei documentaristi italiani più conosciuti e apprezzati all’estero. E non è un caso che quando finalmente addetti ai lavori e cinefili scoprono il cinema del regista partenopeo questi si sia già spostato altrove. Come a dire, purtroppo, che la cultura cinematografica italiana, compresa la critica, soffrono di un notevole ritardo rispetto a quanto di nuovo, o perlomeno d’interessante, si muove in Italia ma che viene notato soprattutto all’estero.

Con il precedente lavoro Cadenza d’inganno, Di Costanzo rimetteva mano a un progetto interrotto a causa della decisione del protagonista che a lavorazione inoltrata del film aveva deciso di non volere più essere attore della storia del regista, ma di vivere la sua storia.

Di Costanzo, dunque, si trova tra le mani un problema etico di quelli che fondano intere cinematografie: come ci si rapporta nei confronti delle vite che accettano, scelgono o decidono di condividere un progetto di reale (o di realtà) quando queste si sottraggono poi alla dialettica proposta dallo sguardo e dalla pratica filmica del regista.

Il problema, per quanto riguarda Di Costanzo, si risolve, se non altro in Cadenza d’inganno in maniera inattesa: il protagonista del film, ormai adulto e in procinto di sposarsi, torna a farsi vivo con il regista annunciandogli di aver una “fine” per il suo film. Di Costanzo, sorpreso, gli chiede se abbia per caso bisogno di un “regista di matrimoni”, ma il ragazzo risponde, no; quello c’è già. Io ho la fine del tuo film. E il regista riprende lì dove era stato costretto a interrompere.

Se rievochiamo quest’aneddoto, è per evidenziare il rapporto profondo che lega una pratica cinematografica a un’etica della testimonianza e della solidarietà. Perché, per usare le parole di Di Costanzo, si tratta sempre di accogliere la responsabilità che deriva dal farsi carico delle storie altrui (che, naturalmente, in questo passaggio diventano storie nostre). È questa la cadenza dell’inganno…

Per cui non meraviglia che con L’intervallo il regista napoletano abbia deciso di passare al cinema “di finzione”, perché, in definitiva, l’assunzione di responsabilità, nei confronti del reale, è la medesima: sia che si tratti di un documentario o di un lungometraggio narrativo.

Lo sguardo determina la posizione etica che di conseguenza diventa la posizione etica del regista. Non ne esiste un’altra.

In questo senso Di Costanzo continua a fare ciò che ha sempre fatto: individua un luogo, l’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi, accoglie dei corpi, e li pone in relazione con lo spazio che li circonda. La vicenda è ridotta all’osso: una ragazzina è sequestrata da un boss perché rea di essersi fatta vedere in giro – forse sono addirittura fidanzati – con uno della parte avversa.

Il suo carceriere è un altro adolescente, figlio di un granitaio, che in cambio della giornata di lavoro, la deve tenere d’occhio sino al ritorno del boss.

Pochissimi elementi, dunque, ma che per Di Costanzo sono più che sufficienti per creare uno spazio di cinema. Come ne L’estate di Giacomo (ma le differenze fra i due titoli non potrebbe essere più evidenti), L’intervallo crea un altro spazio, un’altra ipotesi di mondo e di vita dall’interno di una situazione claustrale.
La scoperta dei locali abbandonati dell’ospedale reca con sé echi del mondo incantato popolato di fantasmi e cardellini addolorati della Ortese. Napoli, città la cui rappresentazione è sempre a rischio di banalizzazione, rinasce nelle sue profondità tufacee, in squarci epifanici illuminati dalla fotografia di Bigazzi.

E, proprio come in Io e te di Bernardo Bertolucci, la resistenza nasce isolata dal mondo, lontana dal bruit e fureur, come suggerirebbe Brisseau. In questa danza sottile fra i corpi e l’inquadratura si manifesta cosa significa farsi carico di altre vite: nello scegliere di essere, in quanto cinema, per i corpi del film la possibilità, l’ipotesi, di un’altra vita. E, nell’arco della durata stessa del film, metterla alla prova, verificarla come linguaggio e lavoro. Il cinema. La vita.

(18 settembre 2012)



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