Il film della settimana: “Miracolo a Le Havre” di Aki Kaurismaki

Giona A. Nazzaro

Aki Kaurismaki è uno che non si fa molte illusioni. Lui sa che il mondo non funziona come dovrebbe e che i potenti si fanno beffe dei deboli e degli ultimi. Proprio per questo motivo le sue fiabe hanno un sapore inconfondibile. Bruciano come certe grappe a poco prezzo ma riscaldano.

Miracolo a Le Havre è senz’ombra di dubbio il migliore dei film realizzati da Kaurismaki negli ultimi anni. Il nostro, infatti, fedele sino all’estremo al suo mondo, a volte corre un po’ il rischio di chiudersi in un angolo autoreferenziale dove, se da un lato ci si può sempre ritrovare come tra vecchi amici, di tanto in tanto per raccontarsi le solite vecchie storie che amiamo tutti, dall’altro attutisce un po’ il piacere del racconto.

Motivo per cui Miracolo a Le Havre giunge davvero come una sorpresa. Il film, infatti, non solo rappresenta la quintessenza del cinema kaurismakiano ma la distilla in modalità nuove e con un approccio freschissimo. Se è vero che Aki non si fa illusioni e non nutre molte speranze per il genere umano è altrettanto vero che continua anche a credere nei fondamentali valori della solidarietà e della lotta. Perché senza solidarietà la lotta è vana e senza lotta la solidarietà si riduce a meri buoni propositi.

Ciò che rende davvero miracoloso il film di Kaurismaki è il severo, commosso e nobile senso di indignazione che pervade il film. Occhio, però: Aki non alza mai la voce. Anzi, quando davvero vuole che ciò che dice sia compreso senza equivoci, l’abbassa semmai ancora di più. L’ascolto è una scelta. Una scelta partecipata. Non un comizio. Si sceglie di ascoltare. Non è urlando che le persone possono cambiare idea. Quella è la brutta televisione. Al cinema le cose funzionano diversamente (ma non ditelo a Oliver Stone…).

A Kaurismaki non stanno bene le leggi sull’immigrazione. Le reputa, a ragione, antiumane. Fermare, arrestare, bloccare in campi di concentramento che hanno cambiato solo il nome i flussi migratori che giungono dal sud del mondo, appare ai suoi occhi come un crimine. I criminali, però, sono altrove. Non sono certo quelli che presentano il conto della dominazione coloniale o dello sfruttamento intensivo delle risorse di casa loro da parte delle multinazionali e delle guerre combattute dai bambini in nome dei diamanti.

Non bisogna farsi ingannare dall’essenzialità lumiériana del cinema kaurismakiano. La sua grazia chapliniana non è buonismo radical-chic. I vapori che sanno di pastis, Marcel Carné, Jacques Prevert e realismo poetico non sono cascame formalista. La sua è una trincea. Nel mondo ci si sta con educazione e rispetto. Si può anche bere fissando una parete per ore in un bar dimenticato da Dio ma al momento opportuno o sai dove sei e con chi ti schieri oppure sei automaticamente iscritto alle fila dei collaborazionisti.

In questo senso il cinema kaurismakiano è una sorta di trincea etica di una resistenza. Dalle sue scelte formali deriva un’etica. Il cinema a immagine del mondo come lo vorremmo. Rivoluzione soluzione di ogni sogno, come direbbe Michel Leiris.

Motivo per cui la vicenda del bambino africano che è accolto dal lustrascarpe di nome Marx è un’autentica variazione dickensiana declinata al sapore di lotta di classe. Perché ammesso (e non concesso…) che le classi siano scomparse, restano sempre gli ultimi: il resto della Storia, di tutte le storie, che si ostina a dissentire rispetto ai lieto fine promulgati dai fautori delle sorti magnifiche e progressive del neoliberismo. E osservata la linearità che da Dickens conduce a Chaplin (e che continuando porta a John Ford…).

Kaurismaki è uno pudico. E pure molto timido. Quindi non aspettatevi grandi proclami rivoluzionari da lui. La rivoluzione la fanno giorno dopo giorno i suoi personaggi che vivono in quartieri a ridosso del porto dove nessuno dei cosiddetti portavoce delle sinistre attuali oserebbe mettere piede. Gente che vive in case illuminate male, dove si mangia poco ma dove si resta vicini. E non solo quando fa freddo. Posti dove persino alcuni poliziotti sono ancora esseri umani e che al momento opportuno sanno disobbedire, distogliendo lo sguardo quando occorre (ma notate che dignità: il poliziotto non offre il suo aiuto, suggerisce… e Marx non lo accoglie a braccia aperte, concede al nemico l’onore delle armi ostentando diffidenza… Come dire: manteniamo le posizioni. D’altronde il buonismo è per i socialdemocratici attratti come mosche dal centro…).

Direte: ma questo non è il mondo “vero”. Questa non è la “realtà”. No. Non lo è. Kaurismaki, quando gli gira bene, è un poeta. Lui si oppone alla realtà. Non la ossequia. Non cade nel tranello di replicarla per spiegare al “pubblico” (entità astratta buona solo per fare proiezioni di spesa e statistiche…) come funziona il mondo. Lui crea il suo mondo. Che, guarda caso, condivide purtroppo le cose che non funzionano del nostro. Però nel suo, ecco il miracolo, la gente sa come vanno le cose al di là dello schermo e si organizza di conseguenza. Si dà una mossa senza grandi proclami. Gli eroi di Kaurismaki quando s’indignano passano direttamente all’azione, senza presumere di avere tutte le risposte. Passano all’azione e non perdono mai la loro tenerezza. A volte la rivoluzione ha il sapore di uno sbrindellato concerto di rock’n’roll in un locale vicino al porto.

E quando sorge di nuovo l’alba, ecco un pesco (o è un ciliegio?) in fiore nel giardino di casa. Un miracolo. Ma come in un film di Ozu. Un miracolo nel quale possiamo credere tutti.

(25 novembre 2011)

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