Il film della settimana: “Noi credevamo” di Mario Martone

Giona A. Nazzaro

Ci sono voluti ben sette anni di lotte, delusioni, timori e speranze, prima che Mario Martone riuscisse a portare a termine Noi credevamo, il suo film sul risorgimento italiano che nell’arco di tre ore e mezza affronta nodi ancora ampiamente irrisolti della nostra storia nazionale. Reduce a mani vuote dal Festival di Venezia, com’era prevedibile d’altronde, il film di Martone, proprio com’è già accaduto a Vincere di Marco Bellocchio, è stato accolto con una reazione quintessenzialmente italiana. Da un lato, inevitabilmente, si è lodato lo sforzo, il tentativo, il cimento erculeo del regista partenopeo, dall’altro i numerosi distinguo, sia degli storici che dei critici cinematografici, hanno espresso benissimo il senso di disagio che Noi credevamo suscita.

Proprio com’era accaduto con Vincere, lodando il tentativo si prendevano le distanze dal progetto attaccandone inevitabilmente il senso. Infatti, eliminati i convenevoli festivalieri, sia a Bellocchio che a Martone non si perdona di avere osato affrontare la storia del nostro paese secondo modalità che non la danno affatto per "passata". Infatti sia Bellocchio che Martone commettono con straordinaria audacia due crimini in uno, stando ai tutori dell’ordine intellettuale (anche quelli – più o meno – insospettabili). Entrambi affrontano, infatti, non solo la storia italiana al presente, ma lo fanno attraverso l’agone della forma cinema, lontanissimi dalle semplificazioni prodotte dal pensiero unico televisivo; sia esso declinato in forma di mero intrattenimento che calato nella dimensione classica della fiction "impegnata". Senza contare inoltre che Martone ha dovuto scontare duramente la caparbietà e la ferocia di L’odore del sangue, il suo film precedente, andato incontro a un’incomprensione molto acuta, cosa che dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che "sbagliare" film o tentare di uscire dal solco della produzione maggioritaria viene fatto pagare a carissimo prezzo. Se non è censura, poco ci manca.

Così come Vincere – nonostante l’attenzione della critica internazionale e del pubblico italiano – è stato accolto come un film "sconveniente", qualcosa che era meglio mettere da parte velocemente, allo stesso modo Noi credevamo potrebbe rischiare di subire il medesimo trattamento e quindi la medesima rimozione. Cosa che non deve assolutamente accadere. Noi credevamo è probabilmente il miglior film italiano degli ultimi decenni. Uno dei pochissimi sussulti di dignità e vitalità che, per citare Domenico Starnone (cfr. ), possono contribuire a creare "un contesto di vivacità democratica". Cosa di cui il nostro cinema, come evidenziato da tutti gli interventi raccolti nell’Almanacco del cinema, ha un bisogno tremendo. Perché, sempre Starnone, "rischiamo di essere un paese dove anche quando ci si sente ‘fuori’, ‘nuovi’, in realtà si è ‘dentro’ fino agli occhi". Ed è esattamente questo il senso "del venire fuori", del "chiamarsi fuori", che trasmettono film come di Daniele Gaglianone, il di Franco Maresco e Noi credevamo. Provocare una discontinuità dall’esistente (dal "dentro"). Con lucidità rigorosa e appassionata. Per un fuori autenticamente "fuori".

Raramente un film italiano chiama alla vigilanza critica. Noi credevamo è uno dei pochissimi titoli degli ultimi decenni del cinema italiano che merita di essere amato e difeso a spada tratta. E che deve diventare patrimonio condiviso non solo del pubblico cinematografico ma della cultura italiana tutta. Se ciò non accadesse, il nostro paese avrebbe nuovamente perduto un’occasione importante non solo per ragionare su se stesso ma, soprattutto, per ricreare quegli ambiti di confronto poetico e democratico che in questa particolarissima congiuntura sono ridotti a pochi cenacoli abitati da ancor meno resistenti.

A ben vedere, Noi credevamo, per quanto ci riguarda, incarna alla perfezione il senso dell’interrogativo alla base dell’ della nostra rivista. Nel film di Martone si ritorna a ragionare sul mondo a partire da uno specifico linguistico. In questo senso, ed è una prima conclusione, Noi credevamo è senz’altro un film baziniano. Ossia un cinema che pratica la differenza. Che accoglie la materia che mette in scena come uno scarto, permettendo quindi all’immagine non di scomparire nel tessuto del racconto (strategia del cinema classico), ma di restare sempre visibile come lavoro del dispositivo di riproduzione. Ovvero prodotto di un pensiero. In questo senso la forma di Noi credevamo, tesa com’è fra corti contadine e salotti aristocratici, carceri umide e campi di battaglia, non diventa mai schermo sul quale allontanare lo scarto ineludibile del reale; assurge invece, con flagranza sconcertante, ad altro reale. L’immagine è dunque ciò che non riesce a essere trattenuto dalla superficie dell’immagine. L’immagine è ciò che eccede l’immagine stessa è che produce differenza. Ciò che manca. L’immagine è (sempre) la testimonianza di ciò che non si vede (e mai la composizione visibile del conflitto in atto). Il residuo non visto che vive nell’immagine è il lavoro del cinema e dello sguardo. Immagine come mancanza, quindi, e in questo Martone è sintonizzato perfettamente con il cinema più urgente e necessario del momento.

Non capita sovente nel cinema contemporaneo che sia dato di osservare il passare del passato come cinema, ossia come verità 24 fotogrammi al secondo (secondo la felice formula godardiana). Clamoroso esempio di nitore rosselliniano, il film di Martone recupera soprattutto la lezione degli ultimi lavori del maestro di Paisà cui Noi credevamo rimanda con la sua scansione in capitoli. Nello specifico la lezione dei lavori televisivi di Rossellini, oltre che quella dei tardi e incompresi capolavori come Viva l’Italia e Vanina Vanini. E Rossellini rivive nell’economia essenziale del gesto cinematografico di Martone.

Scandito apparentemente come un racconto classico, il film evidenzia nella sua tessitura lacerazioni e fughe prospettiche. Colti nel farsi della storia, i protagonisti si ritrovano come proiettati in una sorta di territorio lunare dove gli avvenimenti "maggiori" risuonano come echi fantasmatici (esemplare in questo senso la magnifica apparizione di Garibaldi, un icastico frammento notturno di rara potenza poetica). Indicative di una volontà che non desidera ricostruire scenograficamente la storia, annegando nella meticolosità del dettaglio o della verosimiglianza, sono le fratture della sospensione dell’incredulità che il regista introduce filmando l’esecuzione nel carcere attraverso un’anacronistica scala di ferro e, soprattutt
o, calando nel corpo del racconto lo scheletro di un piccolo ecomostro contemporaneo nel quale il protagonista si rifugia notte tempo.

Martone non è un calligrafo. Martone lavora con i materiali della storia per costruire il suo film. Il che ovviamente non significa che si sia preso delle libertà ciminiane con i fatti, bensì che ha accolto questi nel corpo del suo film permettendo loro di continuare ad agire come tali in un ambiente cinematografico. Cinema impuro, insomma. Cinema che infrange lo schermo della rappresentazione invisibile e della narrazione univoca per privilegiare una modalità di racconto che sia da un lato democraticamente orizzontale e dall’altra, come operazione formale, vertiginosamente verticale. In questo modo gli elementi di Noi credevamo risultano sempre chiaramente distinti. Lontanissimi dalla tentazione dell’affresco corale che è un modo molto preciso per uniformare i conflitti e le differenze in un linguaggio unico. Come dire che questo non è il cinema; Noi credevamo è un altro cinema.

In questo senso Mario Martone è lontanissimo da una certa idea di cinema italiano che pure negli ultimi anni ha prodotto risultati molto alti e convincenti. Al contrario del lavoro epico e memoriale di Giuseppe Tornatore di cui Baarìa è l’esempio più compiuto, Martone non pratica un cinema della memoria o della nostalgia (anche se il regista siciliano, con i suoi lavori migliori, ha dimostrato che "nostalgia" non necessariamente significa essere reazionari). Baarìa racconta l’epica del quarto stato e del ruolo che il PCI ha svolto nell’economia dell’avanzamento politico dell’Italia, mettendolo in scena con una schiettezza che unisce Sergio Leone a Giuseppe De Santis, Raffaello Matarazzo a Ettore Scola. Un cinema puramente fantastico, come fantastico era il sublime Francesco Rosi di C’era una volta. Martone, invece, pratica un cinema del presente, della frattura. L’approccio di Martone è schiettamente modernista. E soprattutto non si muove nell’ambito di un cinema italiano a torto o ragione considerato edenico. Martone, come Bellocchio, inventa costantemente il proprio presente storico e cinematografico. Ed è per questo motivo che Noi credevamo non è affatto viscontiano, perché Martone non mira al romanzo ottocentesco né tanto meno al melodramma puro del Bertolucci di Novecento, creazione quest’ultima schiettamente ophülsiana (anche se la musica di Giuseppe Verdi vi ricopre un ruolo assolutamente centrale).

Questa "strategia della separazione" Mario Martone l’aveva già praticata con eccellenti risultati nello straordinario Teatro di guerra, con una serie di scarti concentrici che allontanavano e riposizionavano la possibilità dell’esistenza di un centro narrativo. L’attualità si ricollocava costantemente rispetto al lavoro del teatro e, soprattutto, rispetto al lavoro necessario a rendere possibile il lavoro teatrale. Il valore politico è dato quindi dallo scarto politico che la forma opera rispetto al reale.

In questo senso la collaborazione con Renato Berta, il maestro ticinese che ha fotografato i capolavori della nouvelle vague elvetica collaborando con cineasti del valore di Michel Sutter, Daniel Schmid e Alain Tanner, prima di diventare operatore abituale di Manoel de Oliveira, Amos Gitai e, soprattutto, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, si è rivelata straordinariamente fruttuosa. Gli interni sono colti con una precisione de oliveiriana, mentre gli esterni sono come impregnati di una potenza materialistica squisitamente straubiana. In questo senso Martone è come se avesse incorporato in un racconto italiano le conquiste formali più alte del cinema moderno contemporaneo senza per questo manifestare né alcun complesso di subalternità né l’altrettanto odioso vezzo del citazionismo gratuito. Martone, dialogando con Renato Berta, è come se fosse riuscito a sfondare dall’interno il muro che soffoca il racconto storico italiano, permettendogli di dialogare con il presente, portandolo su un piano di rischio e avventura.

Noi credevamo è un film necessario. Un film che pone delle domande precise al cinema italiano e, soprattutto, all’Italia. La qualità e la forza delle domande è ineludibile. È auspicabile che tale sia anche la qualità delle eventuali risposte. Se ci saranno. Noi credevamo non è ancora un Noi crediamo. È un tentativo di dire "noi". Un’operazione non certo facile. Non in questo paese.

Mario Martone, però, ha compiuto un passo importantissimo. A tutti noi spetta di valorizzarlo nelle modalità, forme e sedi più adeguate.

(22 settembre 2010)

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