Il film della settimana: “Nymph()maniac” di Lars Von Trier

Giona A. Nazzaro

Annunciato da una campagna pubblicitaria degna di una guerra lampo mediatica, giunge finalmente anche nelle sale italiane il nuovo “opus magnum” di Lars Von Trier, enfant terrible danese, assurto ormai al ruolo di persona non grata a Cannes, dopo anni di corteggiamento e boutade promozionali presentate come irresistibili intuizioni geniali.

Non meraviglia dunque che memori dei fasti dei trascorsi del nostro le notizie relative all’ultima impresa del nostro siano state accolte con lo scetticismo che si riserva in genere all’ultimo della classe che, renitente e ripetente, si cimenta nei suoi soliti numeri, convinto che l’uditorio sia sempre lì, in devoto rapimento, ad accogliere le sue sortite.

Questo per dire che negli anni in cui il cosiddetto genio di Von Trier era esaltato acriticamente, d’altronde bisogna pur mantenere il passo con i blasonati colleghi d’oltralpe, erano pochissimo coloro che si permettevano di eccepire sul valore effettivo di film come Dancer in the Dark e Dogville.

Tutto ciò, naturalmente, non deve permettere che si dimentichi che Von Trier è stato anche un cineasta estremamente interessante, i cui primi film come L’elemento del crimine e, soprattutto, Europa, hanno segnato profondamente il cinema mondiale a cavallo fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio della decade successiva.

Senza contare The Kingdom, innovativo serial televisivo che ha conosciuto anche un ottimo seguito, lavoro che – insieme a Twin Peaks – ha avuto il merito di intuire che la televisione sarebbe stato il territorio cruciale sul quale ridefinire gli equilibri narrativi e formali del cinema.

Poi certo non si può dimenticare tutta la faccenda del Dogma, che a parte il frammento hard di Idioti, si è risolto in un nulla di fatto, se non fosse che il prode Lars si è ritrovato improvvisamente nei panni di teorico del cinema.
Il problema, in fondo, è proprio questo. È evidente che Von Trier è dotato di un’intelligenza polemica, di un’agilità formale e di un’irrequietezza estetica fuori dal comune. Non avrebbe senso negarlo, anche se Godard non ha torto quando stigmatizza il versante istrionico del suo fare cinema.

Ciò che risulta imperdonabile, è il progressivo sopravvento che l’aspetto parodico e autopromozionale ha preso sul cinema di Von Trier raggiungendo livelli addirittura parodici nel caso di Antichrist.
Inevitabile, dunque, accogliere con diffidenza la campagna mediatica di Nimph()maniac.

Rispetto al passato, però, campagna promozionale e film risultano nettamente separati. La campagna, in termini strettamente post post-moderni, può essere considerata come una sorta di film a parte. Detto con un paradosso, una sorta di pro-filmico prefilmico. Il film, invece, che è l’oggetto con il quale ci si deve confrontare, risulta, con grande sorpresa di chi era pronto a liquidarlo come una mera faccenda burocratica, un’operazione dignitosa, seria e sorprendentemente rigorosa.

In Nimph()maniac non ci sono quasi gli sberleffi rivolti allo spettatore, quelle chiamate in correità (per semplificare: il mondo fa schifo e tu caro spettatore sei parte integrante del problema motivo per cui il mio film è fatto a tua immagine e somiglianza) che avevano fatto la felicità dei teorici del “il cinema è finito e Von Trier ci spiega perché e come”.

Nimph()maniac si offre da subito come un film confessionale. L’opera nella quale il regista, messo finalmente da parte tutto l’apparato autopromozionale del suo lavoro, riflette compiutamente sul suo ruolo di creatore di immagini e narratore di storie. Non solo. Nel caso di Nimph()maniac è come se tutto quanto ruota intorno al film fosse una sorta di cortina fumogena tesa a proteggere (o a sviare) (da)il nucleo interno del film. Fragile, vulnerabile. Intimo. Come una sorta di linea di basso impercepibile che regge un’impalcatura complessa, certamente ambiziosa, ma anche straordinariamente ironica, aperta e genuinamente divertita nel ritrovare finalmente una necessità così viva.

Occorre specificare però che la versione del film giunta in Italia è quella che l’autore ha strategicamente depurato per non andare incontro a problemi di censura nei paesi come il nostro, ad alto tasso di perbenismo cattolico e moralismo politicamente corretto.
L’ideale sarebbe potere vedere le due parti del film nella versione esplicita perché è quella che sola può rendere conto dell’impresa del regista.

Ovvio che il film di Von Trier non è un esercizio sulla pornografia. Né tantomeno un pamphlet sulla libertà sessuale e men che mai un ritratto di donna. Quello di Von Trier è un ritratto d’artista dietro la maschera della ninfomania.
Nimph()maniac è il racconto metalinguistico di Von Trier nel paese del cinema. Il film, infatti, nella sua esilarante costruzione metalinguistica che ricorre allo split screen, alle sovrimpressioni, alla divisione in capitoli, imita ironicamente tutte le tecniche letterarie del modernismo letterario novecentesco quasi a volere dare corpo a un mordace catalogo delle forme possibili.

Il racconto di Joe e delle sue peripezie sessuali, che può essere visto come una sorta di rielaborazione costante del proprio principio di realtà – di conseguenza il principio d’individuazione come un cantiere aperto, un’officina surriscaldata – si offre come una continua verifica delle innumerevoli possibilità di (continuare a) dare nomi alle cose del mondo. Come in un gioco nel quale si ricomincia sempre daccapo.

Rielaborando la struttura episodica della letteratura erotica settecentesca – si pensa soprattutto al divin marchese e alle sua filosofia del boudoir, agli inventari del piacere e del dolore delle 120 giornate – e non solo, recuperando il piacere della narrativa d’appendice e reinventando il romanzo di formazione (come si sa, utile all’educazione delle fanciulle…), Von Trier mette in scena un piccolo teatro morale nel quale la parola diventa vettore della possibilità del cinema.

Non è tanto l’autorità letteraria, la reinvenzione di una forma riconosciuta dall’accademia a darsi come forma di legittimazione del cinema, quanto lo stacco, la differenza da essa, a fare del cinema una sorta di calvario dell’esperienza delle cose del mondo.
Questa separazione, che coincide ovviamente con una sorta di sconfitta (l’impossibilità di continuare a godere?), è anche una forma di lutto che il regista rielabora attraverso il vertiginoso affastellarsi delle possibilità del racconto.

Certo Von Trier, in questo senso, è un regista che appartiene al vecchio mondo. In lui non c’è mai la percezione che il cinema possa in qualche modo affrancarsi dalle gabbie del pensiero dominante entro le quali il suo solo cinema sembra trovare la sua dimensione ideale come antagonismo all’esistente. Il cinema in quanto tale non sembra esistere per Von Trier è questo ovviamente è un problema.

Eppure in Nymph()maniac vive un piacere della forma, del racconto, del cinema tout – court, che – e non sembri un termine di confronto inappropriato – evoca la dimensione carnascialesca di American Hustle. Puro principio di piacere in movimento. Manierismo al calor bianco. Un manierismo spinto al punto tale di combustione da mutarsi in una paradossale forma di creazione. Un manierismo così esasperato che a trat
ti sembra addirittura invocare (o evocare) il tabù della possibilità che ci sia vita al di là del perimtero delle forme note. Ma questo è il lutto che si addice a Von Trier quando il suo cinema gira a pieno regime come nel caso di Nymph()maniac.

Nel calarsi nella pelle di Joe, Von Trier mette in scena il proprio percorso di creatore di immagini cinematografiche. Il libertinaggio sadiano, come il vero libertino ben sa, poco ha a che fare con il piacere, ma tantissimo con l’enumerazione delle forme possibili del piacere. L’erotismo scritturale di Sade (sul quale si sono soffermati sia Barthes che Bataille) non trae piacere dalle descrizione delle possibilità del godimento, ma dall’utopia di giungere alla fine del catalogo, di toccare la vetta o l’abisso della lista. Perché si sa che alla fine restano in piedi coloro che sono dotati delle liste migliori (la lista intesa come ipertesto del gusto, del piacere, del sapere o riassunto dei saperi e delle conoscenze. La lista, il catalogo, eros definitivo).

Von Trier invece, proprio come Samuel Butler, ed è un’altra delle numerose ironie di Nymph()maniac, sa bene come muore la carne. È convinto, come Mallarmé, dopo avere letto tutti i libri, puntigliosamente evocati nel film, che la carne è triste e quindi non può che disperatamente urlare insieme ai Rammstein “FÜHLE MICH!” (sentimi, cosa che ricorda anche il Feel Me degli Who di Tommy…).

Ma. C’è un ma. In Nymph()maniac non ci sono corpi. Motivo per cui il film non è pornografico. Né erotico. Ci sono dei segni. Il corpo è un ricordo distante. Forse una memoria. Senz’altro un testo. Scritto da qualcun altro. Vissuto forse dai noi, orfani della carne. L’orizzonte di Nymph()maniac è infatti post-organico. Post-corporeo. La carne è ormai un ricordo diventato utopia. Proprio come l’utopia del godimento.
L’ironia di Von Trier, è forse qui il gioco si fa un tantino esile, forzato a dire il vero (ma non per questo meno divertente…), è di evocare lo spettro del porno in un film privo di corpi.

Se c’è un’idea che Von Trier ha appreso alla perfezione da Sade e da tutti i grandi libertini è che i corpi non esistono se non al fine della messa in scena di teoremi filosofici. Non è un caso che le vittime di Sade godano di una straordinaria resistenza fisica a fronte degli inenarrabili supplizi inflitti loro dai libertini. La loro capacità di resistere al dolore è funzionale alla possibilità che essi siano gli stessi commentatori del loro supplizio. Il corpo sadiano resiste sino a quando non si compie la parabola esemplare del pensiero che s’incarna in un dato supplizio o racconto. Si tratta della dimensione squisitamente pedagogica della scrittura sadiana. Il corpo diventa estensione del pensiero e della parola. E in questo modo il corpo scompare divorato dall’erotismo scritturale sadiano che eiacula solo inchiostro.

Anche Von Trier lavora su corpi che in realtà mettono in scena un pensiero. Il pensiero s’incarna in corpi particolari dando così vita, attraverso il gioco ironico delle forme, a una sorta di transustanziazione filosofica. I corpi esistono in quanto portatori di un discorso. È l’ineludibile curvatura autoritaria del cinema di Von Trier.

Ed è per questo motivo che la visione dello sperma, del coito diventa inevitabile. Senza la visibilità dei dettagli pornografici (digitali) ma estremamente verosimili viene meno la fantasmatica filosofica di Von Trier. Non vedendo il sesso, non si vede l’oggetto del discorso. Perché il sesso nel film di Von Trier non è il sesso. Occultandolo, paradossalmente, riconquista la centralità della scena. E, ne siamo convinti, Von Trier era pienamente consapevole di questa torsione quando ha accettato di depurare il film per i mercati sessuofobi come il nostro. Una sorta di sottile vendetta filosofica che rende anche la versione non hard un oggetto degno di attenzione.

(8 aprile 2014)



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