Il film della settimana: “Pietro” di Daniele Gaglianone

Giona A. Nazzaro

Da anni ormai, Daniele Gaglianone realizza del cinema italiano che puntualmente finisce sempre per essere trascurato sia dalla critica che dal grande pubblico. Eppure Gaglianone, lungi dal cedere alla tentazione di ammorbidire il proprio sguardo, linguaggio e compromettere la propria poetica, rilancia la sfida politica della complessità e procede film dopo film alla creazione di una vera e propria opera filmica che si configura come uno dei ritratti più attendibili del nostro paese.

Presentato all’ultimo festival di Locarno, il primo anno della nuova direzione di Olivier Pére, Pietro è un film terribile e sconvolgente. Bisogna davvero amare in maniera smisurata il proprio paese e il proprio lavoro per osare realizzare un lavoro duro e forte come Pietro. Distribuito in poche sale nell’ultima settimana di agosto, è stato rimosso con fastidio e con una fretta degna di miglior causa.

Ridotta a poche strade, a qualche interno e a uno scorcio di metropolitana, la Torino di Gaglianone assomiglia a una paesaggio devastato da una guerra invisibile, rievocando nel cuore e negli occhi l’orrore laico di Germania anno zero.

Nel corpo di Pietro, Gaglianone mette in scena una resistenza ultimativa. Oltre non si può andare. Pietro, ragazzo con problemi di adattamento, ma colmo di una dignità indicibile, si prende cura del fratello tossicodipendente che invece lo insulta e lo dileggia davanti agli occhi dei suoi amici spacciatori.

Senza cedere in nessun momento alla retorica o all’invettiva e stemperando sempre lo sdegno nella compassione, Gaglianone realizza un film buio e cupo. Con un’adesione desichiana al suo eroe, priva però delle incrostazioni umanistiche e confessionali del regista di Ladri di biciclette, Gaglianone, come un angelo custode ridotto all’impotenza, testimonia solidarietà e amore a un uomo che si ritrova solo nel cuore di tenebra di un paese sprofondato nell’ignominia più abietta. Senza pontificare, stando semplicemente attaccato al suo personaggio, Gaglianone dimostra che è possibile fare del cinema in Italia anche in un momento storico come quello presente. Basta sapere cosa si vuole filmare, come e, soprattutto, perché. Cosa che è, a ben pensarci, esattamente il contrario di quanto accade nel 99,99% dei casi dei film che si producono ancora nel nostro paese.

In questo senso Pietro è davvero una lezione di cinema. Gaglianone, infatti, riesce a mettersi compiutamente alle spalle il neorealismo, per muoversi in direzione di un cinema radicale che, a tratti, sembra evocare il magistero insuperabile di Pedro Costa e di opere radicali e austere come Ossos.

Gaglianone non si fa illusioni. E costruisce, apparentemente, un lungometraggio inospitale come il paese in cui è ambientato. Ma è proprio da questa schiettezza, da questa dolorosa onestà che emerge l’unica possibilità di amore non compromesso che resta al cinema italiano. Ossia quella di lavorare a una resistenza politica, morale e linguistica che nei segni delle inquadrature, dei raccordi di montaggio, della luce e dei movimenti di macchina offra la testimonianza di un esserci ancora nelle cose del mondo e della storia. È il cinema stesso, nel suo scarto dalla semplice mimesi cronachistica del reale, a diventare segno di un altro reale.

Pietro e Daniele Gaglianone sono l’esempio più sconvolgente di questa necessità che si impone al cinema italiano ma che purtroppo viene semplicemente rimossa o negata. Ma se d’altro canto Pietro fosse stato amato e compreso dal pubblico e la critica italiana, probabilmente non vivremmo in Italia ma in un altro paese. Più civile. E più giusto.

(1 settembre 2010)

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