Il film della settimana: “Polisse” di Maïwenn Le Besco
Giona A. Nazzaro
di Stefano Sollima ha avuto il merito non indifferente di porre con una certa determinazione sul piatto un problema che il cinema italiano, ad eccezione del plotone superindipendente dei documentaristi, ha scelto di ignorare. Come rappresentare le forze di polizia al cinema evitando sia la saccarina degli sceneggiati televisivi, l’apologetica del duopolio Rai-Mediaset o imbarazzanti tirate reazionarie come Sbirri? La riposta di Sollima, semplice ed efficace, è stata: si fa cinema con gli esseri umani, anche quelli che non ci piacciono, si sta con loro, ci si mette nella pelle degli altri, senza fare sconti a nessuno. Attraverso questo processo tanto elementare quanto micidiale è transitato il meglio del cinema americano: da Robert Aldrich a Sam Peckinpah, non a caso già tacciati di essere “fascisti”.
Tutto questo per dire che Polisse di Maïwenn, sorella dell’attrice e regista Isild Le Besco, è uno di quei film che pongono problema. Nei panni di una fotografa incaricata di seguire e documentare la vita degli agenti preposti alla tutela dei minori, la regista mette in scena una docufiction al calor bianco che si sviluppa come un racconto corale, documentando l’esistenza di esseri umani a pezzi.
Presentato in concorso all’ultimo festival di Cannes, il film ha provocato più di una reazione scomposta. Oggetto del contendere, ovviamente, la rappresentazione cosiddetta “umana troppo umana” della polizia. Come dire che se si tratta di fare un film sulla polizia, lo si fa solo da un punto di vista unico e indiscutibile. Non meraviglia che ci sia voluto Jean-Luc Godard per sdoganare Clint Eastwood.
Maïwenn segue con un raro nervosismo filmico le imprese di poliziotti considerati meno che poliziotti dai loro colleghi, gente che per lavoro mette le mani lì dove le contraddizioni della società si manifestano nella maniera più crudele e virulenta. Grazie a uno sguardo spietato e imparziale, che osserva entomologicamente il farsi di ferite e lacerazioni, in un contesto dove violenza e burocrazia si tendono la mano, dove il fascismo quotidiano è solo il correlato oggettivo di una progressiva estensione della conflittualità sociale, il film procede con la violenza di un flow urbano inarrestabile (evidente soprattutto nella versione originale del film). Polisse, ci sembra, proprio come ACAB pone un problema serio: come raccontare, in forme non schematiche, le nuove conflittualità sociali, tentando di rendere conto di tutte le complessità in campo.
Maïwenn, come una Claire Simon passata in palestra, mette in scena una società francese sull’orlo di una crisi di nervi. Tenendosi in uno spericolato equilibrio, si concede il lusso di raccontare di un distretto di polizia con la medesima concisione hard-boiled di un Ed McBain incattivito da iniezioni jamesellroyane.
La radiografia di classe che emerge da Polisse è spietata, come dimostra il segmento incentrato sul pedofilo interpretato da Louis-Do de Lencquesaing. Eppure Maïwenn, non assume comode o facili posizioni moralistiche. In questo senso, il finale del film, un pezzo di cinema a cuore aperto, straziato e in equilibrio precario, uno di quei pezzi che in qualunque scuola di cinema dove s’insegna il cinema “ben fatto” boccerebbero senz’appello, che rovescia il senso della confessione di Donald Pleasence in Rosso nel buio, sorprende per l’audacia di uscire dai recinti del conformismo benpensante.
Polisse, al di là di alcune lungaggini, e di alcuni evidenti compiacimenti, è un tentativo coraggioso di raccontare una società complessa come la Francia in preda alla grandeur di Sarkozy.
Ed è cinema come questo, disposto a sporcarsi le mani, che non teme il confronto, che gioca su tutti i tavoli disponibili con grande libertà, che riesce, meglio di altri, a catturare la tensione e la temperatura delle metamorfosi in atto oggi.
Un cinema scomodo, a volte scomposto, diretto, dimentico delle buone maniere, dentro i processi che i media ufficiali raccontano edulcorando gli aspetti più crudi.
Polisse, come ACAB, è cinema potente e problematico. Fare finta di niente non dovrebbe essere un’opzione.
(7 gennaio 2012)
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