Il film della settimana: “Ruggine” di Daniele Gaglianone

Giona A. Nazzaro

Daniele Gaglianone è probabilmente uno dei segreti meglio custoditi del cinema italiano. Nonostante vanti una filmografia foltissima, la grande parte della sua opera risulta ancora troppo poco frequentata. Con Ruggine, dopo l’esito maiuscolo di Pietro, il regista affronta una storia corale, ampliando il raggio del suo sguardo e riconnettendosi alle urgenze delle storie calate nell’agone della Storia. Il lavoro di Gaglianone, infatti, sin dalle sue origini, si è andato sviluppando attraverso un fittissimo dialogo con le ragioni e il farsi della Storia. Basti pensare alla presenza fortissima della guerra di Liberazione o all’interesse fortissimo nei confronti di figure come Gobetti.

Con Ruggine il regista tenta consapevolmente di mettere in scena la storia delle grandi migrazioni del sud del paese verso il nord industrializzato come una favola iniziatica ancorata ai processi economici di una modernizzazione sofferta e contraddittoria. Lo sguardo dell’infanzia, ben lungi dall’essere luogo edenico, è lo specchio oscuro di una vita nient’affatto sognata dagli angeli. In questo senso Ruggine, alla luce della devastante crisi finanziaria che sta vivendo il nostro paese (affrontata come una burla dalla classe dirigente), assume anche le caratteristiche di un incubo retrodatato. Come l’origine ideale di un male già tutto implicito nella mancata democratizzazione del lavoro nel nostro paese favorita dalle ragioni del profitto.

In questo senso Gaglianone dimostra ancora una volta tutta la sua straordinaria abilità poetica nell’ascoltare le voci di una moltitudine umana che progressivamente viene fagocitata da un altro ritmo esistenziale senza per questo ottenere nemmeno il minimo beneficio economico promesso dal miraggio dello sradicamento dalle proprie tradizioni. Non meraviglia, dunque, che il cinema di Daniele Gaglianone orbiti intorno a un sordo nucleo di dolore. Questo movimento genera una resistenza della memoria che si rivela nell’oggi come richiesta di un’altra vita. Ruggine, film con il quale il regista accetta la sfida del confronto con la macchina “ufficiale” del cinema italiano, manifesta esemplarmente la tensione fra passato e presente che genera l’energia del suo sguardo.

Tratto dall’omonimo romanzo di Stefano Massaron, il film è un continuo e vertiginoso montaggio alternato che mette in scena il conflitto che oppone i piccoli Cinzia, Carmine e Sandro al malefico dottor Boldrini (un Filippo Timi davvero stellare e che conferma una straordinaria duttilità espressiva). Il ricordo di quei giorni perseguita i bambini ormai adulti (Valeria Solarino, Valerio Mastandrea e Stefano Accorsi) che vivono dialogando dolorosamente con le loro scelte e incubi.

Attraversato da un commento sonoro minimale e metallico (forse l’unico aspetto del film che avrebbe necessitato di una maggiore attenzione da parte dell’autore che ci aveva abituato a una maggiore austerità), Ruggine mette in scena una Torino colta alla fine degli anni Settanta e reinventata fra Taranto e Formello (nei pressi di Roma) cui la fotografia di Gherardo Gossi conferisce sfumature africane. Ammirevole poi la tensione degli interpreti che si prestano al registro minimale loro richiesto, si pensa soprattutto ad Accorsi, che nel gioco ossessivo con il figlio riesce a far riverberare tutte le paure che ancora lo scuotono in un inquieto desiderio di svelamento e irrefrenabile istinto di protezione.

Proprio come accadeva nel cortometraggio L’orecchio ferito del piccolo comandante, Gaglianone racconta il momento in cui si manifesta la coscienza come responsabilità. Il regista osserva l’infanzia in forme che il cinema italiano ha sfiorato solo nei film migliori di Luigi Comencini e Vittorio De Sica anche se, a uno sguardo ravvicinato, si scoprono sfumature che avvicinano Ruggine a Mark Twain o addirittura a Cormac McCarthy per la sua capacità di dare corpo a un male che striscia sulla linea dell’orizzonte arsa dal sole. Il dottor Boldrini, infatti, personifica tutte le minaccia e la promiscuità sessuale che le favole attribuiscono tradizionalmente all’”uomo nero”. E non è un caso che i bambini debbano sconfiggere il drago nella sua tana per poi accettare pienamente la sfida del dovere crescere (anche se questo non significa affatto che si tratterà di un processo facile…).

L’attenzione partecipe attraverso la quale il regista filma i rituali dell’infanzia, il canto misterico dei corpi che si trasformano giocando tra i detriti di una civiltà industriale che avverte già, cupamente, il proprio venire meno, non hanno pari nel cinema italiano che non riesce a dare dei bambini una immagine che non sia edulcorata secondo i peggiori dettami di un paternalismo criptocattolico durissimo a morire. Ed è dunque questo grumo di energia vitale, colta tra le pieghe di un mondo che mentre sorge già manifesta i segni della propria sparizione imminente, a fare del film un’opera attraversata da una malinconia tanto irriducibile quanto politicamente articolata.

La precisione poetica, quindi, ancor prima che sociologica, con la quale il regista mette in scena, attraverso i loro figli, le masse migranti giunte al nord per vivere alle periferie del benessere, commuove e inquieta. La migrazione viene osservata come un’inevitabile via crucis, destino comune degli ultimi e, senza cedere minimamente alla tentazione della retorica, Gaglianone ci ricorda che nemmeno tanto tempo fa eravamo noi i rom e gli africani che vivevano al sud di nessun nord. Infine, la presenza di Piero Casella e Francesco Lattarulo, i due protagonisti di Pietro, evidenzia inoltre la lealtà del regista ai corpi di un mondo ai margini. Una dichiarazione precisa di poetica territoriale.

Favola nera e dolente (che ricorda anche, attraverso le lucertole imbottigliate, Riflessi sulla pelle di Philip Ridley), Ruggine è il film nel quale tutto il cinema di Daniele Gaglianone si proietta nel futuro con un gesto di rara forza e convinzione. L’augurio, inevitabilmente, è che con Ruggine Daniele Gaglianone riesca finalmente a essere visto e apprezzato anche al di fuori della cerchia di coloro che seguono da anni il suo lavoro.

(3 settembre 2011)

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