Il film della settimana: “Sangue” di Pippo Delbono

Giona A. Nazzaro

Pippo Delbono è una delle voci più originali del cinema italiano degli ultimi anni. Cineasta-voce-corpo che osa sperimentare in pubblico le forme del proprio esserci, Delbono ha dato vita a un’idea di cinema materica, in presa diretta nei confronti del reale. Non uno sterile derivato del cinema-verità o del cinema-diretto, quanto un’antropologia poetica in prima persona in grado di interrogare attraverso la passione della forma il nostro presente. E se le sue produzioni teatrali si collocano nell’ambito di una ricerca che non esclude la presenza di budget sostanziosi, al cinema Delbono si muove rigorosamente nell’ambito del no-budget o quasi. Cortocircuito fonte di intrecci e sperimentazioni ad alto tasso di piacere.
Sangue, presentato in concorso all’ultimo festival di Locarno, prosegue e completa un’ideale “trilogia biologica” iniziata con Paura e .

Nell’incontro fra Delbono e Giovanni Senzani, ex leader e stratega delle Brigate, si manifesta davanti ai nostri occhi la possibilità di un incontro che si salda nel lutto del venire meno: la madre del regista e Anna, moglie di Senzani che pur essendo contraria alla lotta armata attende il compagno per 23 anni, muoiono entrambe a pochi giorni di distanza.
Il dolore della perdita s’intreccia a sua volta con un lutto collettivo, la tragedia di L’Aquila, dimenticata dalla ricostruzione e gonfia di promesse non mantenute.

Delbono prosegue, con caparbia testardaggine, una tradizione di cinema sperimentale tutta italiana, che affonda le sue radici nell’underground storico degli anni Sessanta e Settanta, affidandosi a un dispositivo leggerissimo che non diventa mai oggetto del suo fare ma solo strumento di una verifica costante, aperta e, inevitabilmente, incerta. Il dispositivo è il luogo attraverso il quale si racconta, insomma, non il racconto stesso.

Ironicamente, nel momento in cui il cinema del reale italiano riesce finalmente a farsi notare, quando insomma i discorsi critici iniziano già a sclerotizzarsi in facili formule ripetute mnemonicamente, Delbono con il suo cinema ad alzo zero scompagina certezze rilanciando il piacere del rischio e della complessità. Il piacere e il dovere di mettersi sempre in gioco. Con il proprio corpo e il proprio sguardo.

Incompreso dalla maggior parte della stampa a Locarno, la lega ticinese ha addirittura scatenato interrogazioni parlamentari mentre quella italiana, salvo pochissime eccezioni, contate non è stata da meno, Sangue è stato di fatto accusato di avere assolto le colpe di Senzani (di collusione, complicità e altro ancora…), come se Delbono potesse avere un tale potere nelle sue mani che comunque non può essere scisso dal giudizio che la storia italiana e non solo ha già pronunciato sull’eversione rossa.

Ciò che ha scandalizzato è che Delbono non abbia accettato i termini del discorso relativi all’eversione armata di sinistra. Delbono, buddista omosessuale che, parole sue pronunciate durante la conferenza stampa a Locarno (moderava Lorenzo Esposito di Filmcritica), quando i brigatisti giocavano con le pistole lui al massimo giocava con le bambole, compie un’operazione di segno completamente opposto.

Lui accetta di incontrare Senzani nella sua nudità di uomo, quella che lui e i suoi compagni hanno invece negato alle loro vittime; quella assenza di tenerezza che ha condotto all’omicidio spietato di Roberto Peci. E non lo incontra perché guidato dalla morbosità sensazionalista di avere un brigatista nel suo film ma, semplicemente (e anche questo è, etimologicamente, “scandaloso”), perché a volte la vita ti conduce in luoghi che non ti aspetti. Ed è proprio lì che deve vivere e non altrove. Ed è per questo che Delbono non ha mai chiesto nulla a Senzani. Perché non c’è nulla da chiedere. Non siamo mica in televisione.

Così, mentre la madre di Delbono, fervente cattolica che non ha mai amato i comunisti è consumata dal male nel suo letto e il figlio si reca in Albania alla ricerca disperata di una cura impossibile, Senzani si ritrova come un alieno nel mondo tentando di riprendere il proprio posto.

Delbono osa guardare al mondo e alla nostra storia collettiva con un amore sgomento. Un amore attonito, stupito. Un amore che rinunciando ai discorsi preconfezionati, osa immaginare un piano dove potersi incontrare, non per scambiarsi scuse e ascoltare pentimenti tardivi che non servono a niente e a nessuno (perché, come sostiene Mishima, versato il sangue, la tragedia si è compiuta). Un amore che non è fare sconti non richiesti, quanto la possibilità di guardarsi e sentirsi ascoltare.

Sangue dunque, quello della morte ma anche quello della vita che si rigenera, che si muove con la medesima fluidità dello sguardo di Delbono che nel suo erotismo panìco corteggia persino, artaudianamente, i confini dell’osceno (sempre in senso etimologico).

Lo scandalo e la violenza di Sangue è dato dall’impatto di una composizione esterna alle regole che regolano la comunicazione della politica e della società dello spettacolo. Delbono si offre nudo allo sguardo alla ricerca di un confronto che è anche conflitto, ma che rifiuta di parlare dai luoghi già frequentati.

Sangue è proprio questo spostarsi, questo differirsi rispetto alle coordinate dominanti osando contemporaneamente anche ripensare il luogo e l’utilizzo del cinema.
Nella sua sconcertante tenerezza, Sangue è un film spietato e attonito che mette in gioco tutto se stesso e in dono ottiene epifanie indicibili, e mai cercate.

E mentre Orchidee, il nuovo spettacolo teatrale di Delbono va in scena, Sangue si offre come l’altro versante del discorso del regista, permettendo così di osservare come si moltiplica, fra scena e schermo, il percorso artistico di uno dei creatori di forme più audaci del nostro paese.

(13 gennaio 2013)



MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.