Il film della settimana: “Sorelle mai” di Marco Bellocchio

Giona A. Nazzaro

La svolta rappresentata da Il principe di Homburg ha letteralmente reinventato il lavoro di Marco Bellocchio nonostante questo non abbia mai conosciuto flessioni qualitative drammatiche. Giunto con Il sogno della farfalla all’evidente fine di un ciclo che era già stata celebrata orgiasticamente ne La visione del sabba e messa in discussione come "processo" ne La condanna, Bellocchio ha scelto con grande coraggio di ripensare il proprio lavoro di cineasta.

Per quanto appassionanti fossero quei film, l’impressione, non smentita dal trascorrere del tempo, ossia che Marco Bellocchio fosse alle prese con una divorante quanto appassionante isteria della forma e del linguaggio, è stata confermata da Il principe di Homburg, opera capitale del regista che letteralmente rimette in scena attraverso un ideale sistema di lanterne magiche il complesso sistema linguistico e politico del regista, come a volere radicalmente riscrivere il proprio cinema.

Il principe di Homburg rappresenta, infatti, un articolato ritorno alle origini del cinema, inteso anche come una reinvenzione delle origini dei conflitti che hanno alimentato l’opera di Bellocchio cineasta.

Da Homburg in poi il cinema di Marco Bellocchio è letteralmente esploso. La ricerca formale e linguistica del regista è andata radicalizzandosi in una continua reinvenzione del proprio gesto che attraverso film importanti come La balia (probabilmente il film più intenso di sempre di Bellocchio), L’ora di religione (Il sorriso di mia madre), Buongiorno, notte e, soprattutto, l’audace e ineffabile Il regista di matrimoni ha rilanciato il primato della messinscena e del decoupage in un momento in cui il cinema italiano industriale è tornato soprattutto a illustrare sceneggiature più o meno ben scritte e a confezionare commedie che non mordono di derivazione televisiva.

Quindi non sorprende affatto che dopo il radicale Vincere, Marco Bellocchio si ripresenti con questo crepuscolare Sorelle mai in cui lo stesso regista evoca i numi tutelari di Gozzano e Pascoli.

Nato in seno al progetto dei corsi di Fare Cinema a Bobbio, il film è stato realizzato in un arco di tempo che dal 1999 si estende al 2008. Intervallato con brevissimi frammenti di I pugni in tasca, Sorelle mai rivisita i luoghi dell’immaginario del regista con una partecipazione aurorale cui il formato digitale conferisce ulteriore forza e precisione. Pur essendo concepito per episodi nel corso di quasi dieci anni, il film vanta una coesione emotiva straordinaria e, soprattutto, possiede un’unità di respiro potente. Come un racconto di fantasmi cechoviani, Sorelle mai sembra evaporare sotto la pressione della memoria, ma poi si attarda nei meandri dello sguardo in un fertile gioco di cortocircuiti e rimandi mai così libero nel cinema del regista.

Da sempre origine dei conflitti del cinema bellocchiano, la famiglia si conferma un punto nevralgico ma ripensata e rimessa in scena attraverso una lente d’osservazione in grado di pensarne al presente i conflitti di ieri (l’epifania de I pugni in tasca) e al tempo di calare nel passato le contraddizioni dell’oggi come verifica ulteriore (per forza di cose incerta…).

I luoghi del cineasta diventano così come dei falò incantati della memoria, eppure Bellocchio resiste con grande lucidità alla tentazione di assolutizzarli o, peggio, di idealizzarli. Infatti, le mura domestiche delle due anziane zie che continuano a offrire ospitalità e riparo ai nipoti vengono attraversate inesorabilmente dai conflitti che i due continuano a introdurre nell’alveo domestico. I sentimenti s’intrecciano inesorabili con il tempo e con i luoghi. Le ferite si cicatrizzano nel corso del tempo, si accettano le proprie sconfitte, ma nessuno diventa più saggio o più cinico. Semplicemente il tempo scorre, la vita accade e i corpi e lo sguardo iniziano a mostrare i segni della fatica del vivere. Ed è proprio nel difficilissimo equilibrio di mettere in scena questa essenzialità esistenziale e politica che il gesto di Bellocchio eccelle.

Cinema scevro di compiacimenti, riesce a insediarsi nei luoghi dove accade la vita e a metterla in immagini con un’urgenza e una potenza icastica trasfigurandola nel processo che la offre allo sguardo come cinema.

Sorelle mai è un cinema d’intensità lumièriana. Filma il reale e nel farlo riesce a documentare il fantasma del suo esserci (e della sua assenza).

Che Marco Bellocchio riesca oggi a filmare con tale leggerezza (e gravità) è a dir poco miracoloso.

(22 marzo 2011)



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