Il film della settimana: “Spaghetti story” di Ciro De Caro

Giona A. Nazzaro

Nei suoi momenti migliori il cinema italiano è come Dio: c’è ma non si vede. Come dire che se si desidera misurare il battito del polso della produzione nazionale, bisogna avere orecchio, per parafrasare il buon Jannacci. Insomma, bisogna guardare altrove, e non solo al centro dove pure ogni tanto è possibile trovare delle sorprese. Bisogna guardare altrove perché il cinema italiano, per necessità strategica, si sposta, si disloca, si allontana dal centro. Diventa periferico, indaga il reale oppure si reinventa, come nel caso di Spaghetti Story, restando fedele a se stesso.

Piccola ma esemplare success story tricolore, Spaghetti Story è un film italiano che si è fatto strada da solo, passando per una serie di prestigiosi festival stranieri, prima di ritornare in patria sull’onda di un consenso, meritatissimo e nient’affatto scontato.

Ciro De Caro, cineasta dal quale è lecito continuare aspettarsi altre belle sorprese in futuro, firma con il suo primo lungometraggio un’opera affascinante, pienamente riuscita e completamente calata nel presente. Per intenderci: Spaghetti Story appartiene al novero dei pochissimi film italiani che non piangono l’assenza dei padri, né come modello produttivo né come racconto, e provano a osservare il paese a partire nel qui ed ora.

E sono tanti i meriti del film di De Caro. A elencarli salta subito agli occhi l’uso di una parlata romanesca non complice, o risaputa, ma quotidiana, aderente alla realtà dei corpi dei parlanti. Nessuna battuta facile né istrionica, semplicemente la capacità di ascoltare anche attraverso la sintassi di un linguaggio che il cinema popolare ha saccheggiato e cui si affida parassitariamente in mancanza d’idee.

A De Caro piace la gente che parla ma mentre ascolta i suoi protagonisti ci sono delle cose che accadono nell’inquadratura e il montaggio di Alessandro Cerquetti ci tiene a sottolineare che l’orizzonte politico del film non è certo il naturalismo ambientale.

Spaghetty Story è una commedia. Di quelle che faceva il primissimo Zurlini, si pensa sovente a Le ragazze di San Frediano, oppure il venerando Emmer, e si respira persino, non paia un’eresia, aria di vaghe onde novelle, sia transalpine che britanniche.

De Caro costruisce il ritmo del suo film sui corpi e le voci dei protagonisti. Valerio (Di Benedetto) il Dylan Dog del teaser Vittima degli eventi, richiama alla memoria il giovane Alessio Orano, mentre Cristian Di Sante non avrebbe certo sfigurato alla corte del Libanese secondo Stefano Sollima.

Gente di Roma, dunque, niente pariolini che s’atteggiano a no-global in perenne crisi esistenziale (la riserva umana tipica di una certa produzione nazionale), e né sottoproletari come se li immaginano quelli che per strada nemmeno ci vanno.
Gente vera, insomma, che fa i salti mortali per arrivare a fine mese. E senza retorica barricadera. Quella classe media, insomma, che anni di crisi hanno spinto verso la povertà, ma che prova sempre a rialzarsi. Ed è questa l’intuizione politica forte della commedia di De Caro: la sua generazione è una classe sociale a rischio d’estinzione. Come un’istantanea scattata prima del buio.

Si ride, spesso e volentieri in Spaghetti Story. Si ride perché il regista non tenta di farci ridere a tutti i costi. Come i flaneur di una volta, Valerio e compagni vanno alla deriva per le strade di Roma, si lasciano e si prendono, fanno qualche affare losco con dei cinesi molto loschi, ma non sono più i tempi di Amore tossico. Oggi, nell’Europa unita, il problema sono le frontiere, quelle dei paesi e quelle del benessere irraggiungibile.
Il romanesco, eroso dall’interno, torna a essere lingua e non strumento comico dal fiato corto.

Spaghetti Story, a suo modo, reinventa certe tensioni presenti nel cosiddetto mumblecore statunitense, si sintonizza sulle derive urbane di film britannici come The Comedian di Tom Shkolnik e, a suo modo, indica una strada e una pratica a chi voglia davvero fare cinema nel nostro paese.

Certo, le limitazioni di budget sono evidenti ma non fastidiose e, soprattutto, non diventano il meta-racconto del film stesso come sovente accade in casi simili. D’altronde, non dire gatto…
E, a volerla dire tutta, invece, De Caro, oggi, ci sembra il nome più attendibile per riprendere la lezione di Carlo Verdone, così come quest’ultimo l’ha ripensata alla luce dei suoi ultimi film.

Ed è questa intelligenza strategica di De Caro, nel rimettere mano contemporaneamente a più livelli di discorso, mentre tiene gli occhi puntati saldamente sul suo film, a fare di Spaghetti Story un esordio molto promettente.
Ciro De Caro è un talento che vale davvero la pena di continuare a tenere d’occhio.

(10 dicembre 2013)



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