Il film della settimana: “The Hurt Locker” di Kathryn Bigelow
Giona A. Nazzaro
THE HURT LOCKER di Kathryn Bigelow (Usa, 2009)
No. Non è un déjà vu. The Hurt Locker di Kathryn Bigelow è un ritornante, ma non uno zombie. La storia ormai è nota. Presentato a Venezia, dove alcune anime belle lo hanno ritenuto addirittura un film fascista, viene distribuito in sala ma nessuno lo va a vedere e finisce subito in dvd. La Bigelow, però, è una donna coriacea. Chi conosce il suo cinema lo sa bene.
Mentre il distributore italiano si lecca le ferite, Kathryn Bigelow tira fuori il suo caratteraccio da fondista e inizia la lunga marcia verso l’Oscar. Che è andata a finire come tutti sanno. Una regista con le palle, pare abbia detto Gillo Pontecorvo a Venezia al termine della visione di Strange Days. Sottoscriviamo.
Purtroppo la Bigelow ha corso seriamente il rischio di essere esiliata ai margini dell’industria cinematografica statunitense. Nonostante una filmografia non copiosa ma piena solo di titoli indispensabili, il botteghino non è mai stato particolarmente generoso con lei. Non è un caso che i suoi film siano diventati dei titoli cruciali solo anni dopo la loro distribuzione al cinema.
Cineasta di riferimento di una generazione cresciuta a Belushi, Cronenberg, Landis, Hill, Raimi, Carpenter, Ferrara e Lynch, la Bigelow ha sempre perseguito una sua visione personale della messa in scena della violenza e dei rapporti di amicizia virile come se fosse un ricamo bizantino. Mentre quando si tratta di donne, vedi l’inquieto Il mistero dell’acqua, si sprofonda nelle regioni più recondite dei gesti interrotti. Con K-19 le due regioni del cinema bigelowiano si abbracciano. Ma è innegabile che le piace osservare gente che corre e che spara. Perché è nelle modalità in cui la gente corre e si spara addosso che lei cerca e trova la peculiare cifra dialettica del suo cinema.
Mai troppo amata dalla critica, che aveva sempre da obiettare che nei suoi film c’era sempre troppo di questo o di quest’altro. Eppure a ripercorrere la sua filmografia si comprende che i suoi film hanno definito gli ultimi decenni meglio del 90% di cinema facilmente celebrato e altrettanto rapidamente dimenticato.
Che nessuno osi criticare gli Oscar, quindi, che, per dirla con Paul Schrader, ormai sono un premio alla popolarità piuttosto che alla qualità. Considerato infatti che la qualità non ha mai difettato alla Bigelow, un po’ di popolarità non guasterebbe.
Eppure, caso più unico che raro, pare proprio che The Hurt Locker non lo voglia vedere nessuno in Italia. I dati Cinetel del periodo che va dall’8 al 14 marzo hanno registrato solo 5000 spettatori. Come dire che neanche l’Oscar riesce a smuovere l’interesse del pubblico. E questo è davvero un male.
The Hurt Locker fa parte di un filone di film che in tempo reale elaborano il fall-out politico ed etico che la guerra in Iraq ha avuto sulla coscienza degli Stati Uniti. Rispetto al cinema del Vietnam, il cinema da postumi iracheni è in presa diretta. Da Redacted passando per il pessimo Brothers giungendo sino a Green Zone di Paul Greengrass, e senza dimenticare un thriller come Fuori controllo, Hollywood sta lavando in pubblico i panni lerci della sporca guerra di Bush Jr.
Rispetto a questi film, The Hurt Locker si concentra sullo spazio interiore della guerra. Reiterazione di una serie di gesti rituali, riduce il teatro di guerra a una liturgia procedurale scandita come un conto alla rovescia. Si muore quando scade il tempo. Il tempo è il nemico da battere.
Rispetto ai Vietnam movie dove il nemico per eccellenza era Charlie mimetizzato nella boscaglia, i soldati di The Hurt Locker esperiscono la vertigine del nemico invisibile. A partire dal velo (strumento di guerriglia anti-imperialista secondo certi ragionamenti di Frantz Fanon), senza dimenticare kefiah varie per giungere sino agli ordigni nascosti nella sabbia: la minaccia è invisibile.
The Hurt Locker offre un’immagine agghiacciante della democrazia da esportazione secondo l’amministrazione Bush Jr. Si salta in aria al minimo passo falso. E il problema è che se non salti in aria, c’è il rischio che diventi un tossico da adrenalina. Non vuoi fare altro. Vuoi stare lì dove una bomba potrebbe scoppiarti in faccia al minimo errore.
La Bigelow, sublime coreografa di uomini allo sbaraglio, scolpisce ogni dettaglio fisico con una precisione degna di un Robert Capa. La precisione documentaria del suo sguardo è pari solo alla potenza visionaria attraverso la quale si inebria dei sapori delle trincee e barricate. Sublime contraddizione di un cinema strenuamente democratico cui soccombe felicemente anche il suo ex marito James Cameron. Non era Sam Fuller che affermava in Pierrot le fou che il cinema è un campo di battaglia?
(24 marzo 2010)
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