Il film della settimana: “The Social Network” di David Fincher

Giona A. Nazzaro



David Fincher appartiene al novero ristretto di cineasti statunitensi che, muovendo da presupposti assolutamente non cinefili, si sono progressivamente cimentati in un tentativo di reinvenzione del cinema classico.

Autore di numerosi spot pubblicitari e di videoclip estremamente inventivi per artisti molto diversi tra loro come gli Aerosmith e Sting, Fincher ha esordito sulla lunga distanza con un controverso sequel di Alien, il terzo, che ha sofferto nel corso della sua realizzazione di ingerenze produttive che hanno inevitabilmente modificato il progetto originario del regista.

Che Fincher covasse comunque delle ambizioni alt(r)e è testimoniato dai film successivi che ha realizzato: thriller come Se7en, The Game, il discusso Fight Club e l’esercizio di pura claustrobia Panic Room. Tutte opere tese e compatte che se da un lato entusiasmavano una parte della critica, suscitavano invece perplessità in quanti nell’estrema disinvoltura formale del regista vedevano invece solo un accumulo di segni ed effetti denotativi tutto sommato poco interessanti sulla lunga distanza (chi scrive per molto tempo ha militato tra le fila di quest’ultimi).

A complicare l’affaire Fincher giunge una lunga conversazione con John Carpenter, classicista politico e rigoroso, realizzata a Torino nell’anno della retrospettiva torinese dedicata al regista da Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto. Nel corso della lunga intervista Carpenter, lamentando un’involuzione inevitabile del cinema americano, si rallegrava invece che nonostante tutto Fincher fosse riuscito a realizzare un lavoro a suo dire estremo e politico come Fight Club. Alle nostre obiezioni che il film ci pareva solo un esercizio di stile, il solitamente laconico Carpenter si lasciò andare a qualche notazione tecnica sul film che inevitabilmente piantò il germe del dubbio nelle nostre posizioni antifincheriane.

Eppure, nonostante il ripensare, niente poteva anticipare la sorpresa prodotta da Zodiac, uno straordinario thriller investigativo nel quale Fincher letteralmente reinventava lo spazio del cinema degli anni Settanta attraverso un lavoro di grande complessità nel quale la macchina da presa risultava ripensata da una serie di composizioni digitali tese a sfondare la profondità di campo e a complessificare la percezione delle linee di fuga.

Questo lavoro in Fincher rappresenta una profonda riflessione sul tempo dell’immagine che il successivo Il curioso caso di Benjamin Button radicalizzava sino all’inevitabile punto di non ritorno. Fincher, nel corpo di Brad Pitt nato vecchio e destinato a morire bambino, creava una parabola sul tempo del cinema e il cinema del tempo che si offriva come una meditazione non sulla possibilità di resistenza dell’immagine come segno e motore degli affetti, ma soprattutto come possibilità di un racconto ancora collettivo nell’epoca dell’atomizzazione inevitabile introdotta dalle tecnologie digitali e dalle relative accelerazioni delle modalità di comunicazione.

In questo senso The Social Network non solo prosegue il discorso sin qui sviluppato dal regista, ma lo interfaccia inevitabilmente con un diverso tipo di socialità.

Senza entrare nel campo minato delle banalità della sociologia spicciola, possiamo comunque sgombrare il campo da un equivoco che ci sembra più che altro una scorciatoia critica che produce una lettura a nostro avviso non corretta di The Social Network. Il film non riproduce la velocità della rete. Questa è semmai una cosa che ha fatto il primo Tron agli albori degli anni Ottanta e che il recente Speed Racer ha ricontestualizzato alla luce di quanto effettivamente è accaduto dopo Tron. In questo senso Speed Racer è il Sogno lungo un giorno di Tron.

The Social Network, invece, prendendo atto di come è cambiato il mondo della comunicazione visiva, opera una riflessione sulle strutture linguistiche di questo nuovo tipo di velocità che caratterizza lo scambio di informazioni. Non si limita a riprodurne mimeticamente il segno. Fincher dà per scontato che le trasformazioni attuali non solo non sono definitive, ma che preludono ad altre ben più radicali. E pertanto tenta di mettere in scena una possibilità di come continuare a filmare, a fare cinema, in un panorama massmediale in continua evoluzione.

Fincher dunque è come se si posizionasse nell’occhio del ciclone, in quel punto dove, mentre tutto intorno impazzisce, tutto sembra fermarsi. Considerato che il cinema classico, analogico, è un linguaggio e una forma del Novecento, Fincher compie un’audace opera di ripensamento del linguaggio classico non imitando le forme della velocità dei nuovi media quanto mettendo in gioco il carattere metastabile della nuova verità digitale.

L’oggetto principale dell’indagine di Fincher ci sembra infatti dichiaratamente filosofico. Dato per acquisito che la verità è anche il fattore temporale di cui necessita per sedimentarsi ed essere percepita come tale (ossia di quanto tempo la verità ha bisogno per essere vera?), Fincher, nella struttura squisitamente politica di un dramma processuale che trent’anni prima avrebbe potuto benissimo recare la firma di un Pakula, di un Pollack o di uno Schatzberg, introduce il virus dell’indeterminazione. Scompaginando cronologicamente il racconto della vicenda di come Mark Zuckerberg ed Eduardo Saverin dopo avere inventato Facebook sono finiti ai ferri corti legali, Fincher crea un grumo di tempo che, ad una analisi attenta, risulta più simile a un intrigo piranesiano o a uno dei dedali del cyberspazio immaginati da William Gibson, che al resoconto di una causa legale.

Inevitabile considerare The Social Network come un possibile aggiornamento del classico Rashomon. Ma laddove Kurosawa lavorava sull’orizzontalità del tempo (e della pellicola), Fincher crea un mutante cinematografico che si muove esclusivamente in verticale. Ed è proprio questo l’aspetto cinematografico più potente del film di Fincher.

The Social Network sembra un mero esercizio processuale. In realtà ipotizza una tipologia di realtà che a partire appunto dal nostro vivere altrove, in rete, possa diventare uno spazio del racconto da socializzare. Riflettendo sulla percezione modificata e accelerata di noi fruitori della rete, Fincher tenta di reinventare il montaggio invisibile di una volta creando un simulacro trasparente del cinema classico, dando in realtà vita a una forma di racconto cinematografico per il quale l’aggettivo “unheimlich” ci sembra l’unica definizione adeguata.

I segni della classicità hollywoodiana sembrano esserci tutti. La visione in inglese del film, l’unica possibile, evidenzia alla perfezione che The Social Network sta ai nostri anni Dieci, come The Roaring Twenties di Howard Hawks sta al Novecento. Dialoghi densi e velocissimi, l’arguzia letteraria di Aaron Sorkin, il miglior sceneggiatore in circolazione, autore di The West Wing, la serie tv che ha portato la politica “reale” nelle case statunitensi e non solo, il talento incommensurabile di giovanissimi interpreti puramente cinematografici lontani anni luce dalle convenzioni drammatiche e pigrizie manieriste del vecchio continente, un “argomento” di attualità e cosi via.

In realtà ciò che sembra stare
a cuore a Fincher è come a partire da tutti questi elementi si possa creare un nuovo racconto cinematografico “invisibile”. Un cinema che se da un lato sembra conservare i segni del cinema che fu, dall’altro, a partire da questi elementi, creare nuove modalità dello sguardo e nuove modalità di partecipazione nei confronti del racconto. L’unico momento in cui il procedimento di Fincher si rivela in tutta la sua flagranza è durante la gara di canottaggio che è messa in scena con un’evidenza “cubista” magistrale. Ossia ciò che state vedendo non è una gara di canottaggio, ma non è nemmeno il cinema che vi sembrava di conoscere.

The Social Network, quindi, non solo non imita la velocità della rete, ma prova a dare forma cinematografica a una percezione del racconto la cui scena primaria non è stato l’arrivo alla stazione del treno dei Lumiere, quanto l’avatar di una chat o di uno shooter on line. Fincher sembra davvero essere alle prese con una nuova alfabetizzazione cinematografica in ambiente digitale. Ed è proprio nei confronti della complessità visiva e politica di un film come The Social Network che emerge la pochezza pretestuosa, e tutta mimetica di un film come Inception.

Dietro la “vera storia” di facebook si cela in realtà la vera storia dei primi tentativi del cinema degli anni dieci di continuare a esistere come motore mitopoietico in un ambiente la cui velocità di racconto non è più analogica.

In questo senso The Social Network ci sembra l’unico film possibile che possa interessare ai protagonisti di Scott Pilgrim Vs. The World, straordinaria riflessione su come cambia il linguaggio, ossia la parola, di una generazione che non è cresciuta con il cinema ma che ha mediato tutto il proprio sapere attraverso le immagini come nessuna generazione prima.

The Social Network è davvero il segno di un cinema che cambia in un mondo che cambia ancor più velocemente.

(4 novembre 2010)

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