Il film della settimana: “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese
Giona A. Nazzaro
Brutta bestia il contenutismo. Il contenutismo s’ostina a fissare il dito che punta alla luna. E pretende di discutere del dito. I contenutisti, poi, sono coloro che al “contenuto” c’arrivano sempre dopo. Dopo compiuto la circumnavigazione del dito e aver scoperto che, dopo la giravolta su se stessi, quasi sempre c’è dell’altro cui non avevano pensato.
Questo per dire che per quanto sia legittimo non farsi piacere The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, se non altro bisognerebbe tentare di individuare il famoso “campo da gioco”, se proprio si vuole entrare nell’agone del discorso che propone il film.
Ribadendo che questo è il miglior Scorsese dai tempi di Casinò, straordinaria riflessione morale sul denaro e la sua mobilità, bisognerebbe, per iniziare a ragionare intorno al film, ricordare altresì che il regista di Taxi Driver e Toro scatenato, pensa con la macchina da presa.
Che cosa significa quest’affermazione? Significa che Scorsese non cala sulle immagini un discorso esterno o estraneo a esse. Il profilmico, ossia tutto quanto viene prima della ripresa cinematografica, diventa poi “universo diegetico” (come suggerisce Sandro Bernardi) che è creato dal (lavoro del) film (stesso).
Questo per ricordare che esistono sempre due ordini di realtà o del reale il cui luogo d’incontro non può che essere il set. Unico luogo deputato al loro incontro (e il set può essere anche, per intenderci, l’aperta campagna dove un documentarista decide di effettuare una ripresa o pensare un’inquadratura).
Se il profilmico di The Wolf of Wall Street è un certo Jordan Belfort, della cui esistenza alzi la mano chi era informato prima del film in questione e le cui imprese criminali l’hanno prima innalzato alle vette più vertiginose del denaro e poi precipitato, ma per relativamente poco, in prigione dove ha espiato una parte dei suoi peccati prima di reinventarsi e dare in seguito alle stampe un libro che è diventato il film che ne hanno tratto Leonardo DiCaprio e Scorsese.
Insomma, Jordan Belfort si trascina dietro un bel po’ di profilmico. Di quello che i custodi del politicamente corretto faticano a digerire perché, contenutisticamente, non riescono ad accettare che il loro principio di piacere sia intralciato dalla “realtà” che si convincono sia poi quella che vedono sullo schermo mentre si agitano al buio sulla poltrona.
Come dire che il “profilmico” non è tanto una materia ma, una “realtà”, pertanto intangibile, se non si è disposti ad affrontarla con un “pre-giudizio” che metta moralmente tutti al sicuro, soprattutto coloro che non si reputano in grado di farsi un’opinione autonoma rispetto ai rischi che il piacere del cinema inevitabilmente comporta.
Insomma i “contenutisti” non solo fanno confusione, ma si eleggono a tutori del buoncostume cinematografico quanto il tasso di piacere diventa, inevitabilmente, complesso. Quando il cinema torna a “far paura”, per utilizzare una formula dichiaratamente desueta.
Si rimprovera a Scorsese di non mostrare le vittime di Belfort. E perché mai dovrebbe farlo? Inevitabile mostrare le vittime in un film di gangster: i proiettili fatalmente finiscono nel corpo di qualcuno (ce lo ha spiegato Godard cosa implica questa storia del piombo e dei corpi…).
Perché Scorsese dovrebbe mostrare le vittime di un crimine “bianco” le cui vittime si posizionano sul medesimo piano ontologico del criminale? Autore del crimine e vittime sono consustanziali. Condividono il medesimo orizzonte esistenziale, morale ed etico. Non esistono, e non potrebbero esistere, differenziati l’uno dall’altro. Per intenderci: non stiamo insinuando “se la sono cercata”, tanto per restare su un piano “contenutista”. Belfort non potrebbe darsi senza il tessuto umano che permette, di fatto, l’affermarsi della tipologia di un predatore che non esiste in natura, evocato però dai bisogni di un’economia neoliberista in metastasi.
In questo senso, andare a rivedersi l’episodio di Newsroom nel quale Olivia Munn spiega a Emily Mortimer cos’è il Glass-Steagall Act (si trova anche su Wikipedia), può essere estremamente utile (e qui si riapre l’annosa questione del cinema e l’impegno…). E magari fare qualche passo all’indietro. Riandare con la memoria alla deregulation voluta da Reagan che ha permesso di mettere le mani sui risparmi dei cittadini. Poi ci si dovrebbe ricordare di Clinton che ha ratificato le politiche repubblicane e così via. Tutto questo, però, è sempre e solo “pro-filmico”.
E nel film di Scorsese non si vedono le vittime. Perché? Semplice. Perché non esistono. Non esistono in quanto il film, per amore di ragionamento paradossale, accetta il punto di vista di Belfort che a sua volta potremmo far risalire a W.S. Burroughs “il denaro è un’accettazione di esistenza”. Ossia: il denaro crea un orizzonte ontologico che, alla stregua del virus del verbo “essere”, l’è di esistenza da Burroughs considerato il cancro del principio d’individuazione occidentale, ha spazzato via la possibilità del “come” implicante invece una relazione.
Esempio. Io sono tuo schiavo è diverso da: io come schiavo. Il verbo essere, pone in esistenza, per definizione, e chiama in causa anche il tempo. Il come, invece, è una faccenda temporanea. E, creando una relazione, un luogo del dialogo, crea uno spazio, temporaneamente occupato, che può esistere al di fuori del tempo (del linguaggio del denaro…).
Insomma, tornando a The Wolf of Wall Street, Belfort esiste felicemente nell’ambito dell’orizzonte ontologico creato dal denaro. Ciò che Scorsese mette in scena è il principio di realtà del denaro visto dall’interno con il suo principio d’individuazione.
Nell’orizzonte ontologico del denaro, il luogo-narrazione nel quale si crede fermamente all’esistenza del denaro, non c’è posto, e non potrà mai esserci, lo confermano tutte le politiche neoliberiste degli ultimi decenni, spazio per le vittime, ossia coloro che sono estranei all’orizzonte ontologico che, per definizione, li nega.
Scorsese filma l’ontologia del denaro. La non-esistenza del denaro praticata come unica esistenza possibile. Un paradosso, appunto. Un carnevale del falso e della moltiplicazione della scena (del denaro).
Tautologia. Belfort crede al denaro. E si muove come il denaro. Il denaro è un segno. Le vittime di Belfort non si vedono perché, molto semplicemente, non riescono a trattenere i segni del denaro necessari a porli in esistenza all’interno dell’orizzonte ontologico del denaro stesso. Non sono veloci come il denaro che desiderano. Anzi: è il loro desiderio di denaro, in quanto amanti respinti, a rilanciare con più forza, l’esistenza del denaro. Sono loro che creano l’immagine del denaro. Jordan Belfort lavora l’immagine delle possibilità e dei segni del denaro.
Belfort è un catalizzatore di denaro. Lui parla il linguaggio del denaro che è consustanziale al linguaggio delle vittime. Le vittime sono Belfort, ma in minore. Credono, cioè, al racconto del denaro che Belfort mette in scena per loro. Vogliono credere. E questo è un discorso che Scorsese comprende alla perfezione.
Belfort mette in scena il sogno americano come “farsa&rdquo
; (capitalista), cosa che ci dovrebbe ricordare qualcosa, perché, come suggerisce Brecht, la gente del denaro legge con più attenzione (citiamo a memoria).
Tutti nel mondo di Belfort credono al denaro. Il denaro, mass media caldissimo, in grado di creare istantaneamente un mondo a propria immagine e somiglianza, crea anche i portatori sani di denaro. Il denaro, come il linguaggio, è un virus. C’è forse qualcuno che nel mondo occidentale non ambisca a parlare?
Genialmente Scorsese, scarto assolutamente politico, mette in scena il denaro come un mass media che “ti parla”. Difficile parlare dall’interno del denaro se non ripetendo instancabilmente il messaggio primario stesso del denaro che è, non potrebbe essere altrimenti, io esisto. Le vittime di Belfort sono ben lungi dal non volere parlare “denaro”. Anzi. Devono e vogliono farlo se ambiscono a esistere nel perimetro del denaro. Probabilmente pensano addirittura che, se gliene fosse data l’opportunità, sarebbero persino più bravi di Belfort a fare denaro.
La velocità del film di Scorsese non è quella di un cinema dopato, segno fallico di una potenza persa da Gangs of New York in avanti, ma la rappresentazione “documentaria” dei “terremoti neuronali”, per restare in ambito McLuhan, che la circolazione del denaro provoca nel sistema nervoso. The Wolf of Wall Street è la radiografia del desiderio del denaro il cui correlato oggettivo è la droga. Non è un caso che nel film si provi addirittura a indossare il denaro…
Come dire che si tratta di un gioco che ti gioca mentre lo giochi. E Scorsese, accetta di recarsi sul terreno del denaro e verificarlo, negativamente, attraverso il cinema perché lui sa che la “realtà” non potrà mai essere riprodotta al cinema. Ciò che il cinema fa, è mostrare il lavoro compiuto sui materiali del reale per farlo diventare cinema. È questo il contenuto “vero” del cinema, con buona pace di quanti si ostinano a fissare il dito invece che la luna.
Insomma su Scorsese e il suo film si sono riversati i medesimi rimproveri che i contenutisti di una volta muovevano ai vari Risi e Monicelli: ossia esaltare, condonare, banalizzare, e chi più ne ha più ne metta, i personaggi interpretati da Gassman, Manfredi e Sordi.
Ma, se proprio ci si volesse ostinare a cercare il punto di vista del regista sulla vicenda del racconto, il suo giudizio etico rispetto al personaggio, allora bisognerebbe provare a guardare con le orecchie alla straordinaria raccolta di canzoni curata dal fedelissimo Robbie Robertson. Ogni canzone segna una tappa del racconto, come un contrappunto ironico. Dal blues di Elmore James all’Incontrollable Urge dei Devo passando per Insane in the Brain dei Cypress Hill senza contare il “detournement” di Gloria di Umberto Tozzi a commentare il catastrofico Titanic-replay dell’esilarante naufragio. Oppure il Plastic Bertrand di Ça plane pour moi (rifatta dai Sonic Youth sulla Compilation Caroline, Freedom of Choice) che incornicia la trattativa con il banchiere ginevrino Jean Dujardins, l’unico personaggio in grado di “parlare-denaro” con Belfort, e non a caso comunicano “telepaticamente”…).
Cinema profondamente filosofico, The Wolf of Wall Street è il film che, dopo Inside Job, meglio mette in scena il paesaggio politico e antropologico del mondo nuovo della sua crisi finanziaria… eterna. E le poche inquadrature nella metro evidenziano che esiste un mondo al di fuori dell’orizzonte ontologico del denaro, ma queste inquadrature giungono alla fine, quando ormai il film ha dovuto abbandonare lo sguardo di Belfort perché la Legge, un altro principio di realtà, ha imposto una narrazione antagonista alla sua, imponendo un attestato d’esistenza più forte.
Momentaneamente. Perché il film prima o poi finisce. Il mondo continua.
(28 gennaio 2014)
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