Il film della settimana: “Tomboy” di Céline Sciamma

Giona A. Nazzaro

A volte sono i cosiddetti piccoli film che segnano il passo di una cinematografia. Film retti da un rigore espressivo e una qualità priva di qualsiasi accenno a compromessi tale da porsi immediatamente come modello praticabile di un’alternativa politica ed espressiva concreta.

Tomboy, di Céline Sciamma, è uno di questi film. Un film che s’innesta nella tradizione della post-nouvelle vague senza dimenticare, anzi accentuandolo, un forte piacere del racconto (e a tratti, non sembri un’eresia, si pensa persino alle atmosfere del miglior cinema di Claude Miller come La piccola ladra).

Nel mettere in scena la storia di una bambina che vorrebbe invece essere un maschio, la regista riesce a muoversi con grande attenzione in un territorio fatto di fantasmi dove la linea che separa gender e identità oscilla morbidamente tra le pieghe della carne.

Ciò che Tomboy riesce a raccontare con una partecipazione magistrale, è il danzare del principio d’individuazione. Io non sono io. Io, ovviamente, è un altro; un altro che mi presta le sue vestigia come in un movimento di possessione permettendomi di mettermi in scena come altro da me ma soprattutto come altro da… voi.

È questo gioco del differire la propria persona e immagine il nocciolo politico del film di Céline Sciamma. L’immagine è pensata e vissuta come potenzialmente limitativa, chiusa. Pertanto è attraverso il gioco dell’identità, che si muove e danza inquieta e sensuale, che l’immagine può essere riscattata ed essere nuovamente aperta. Non punto d’arrivo, ma punto di transito perenne verso altre immagini anch’esse di passaggio. Le immagini servono per passare, per pensare tutte quelle che non sono state ancora viste. Che non sono state ancora pensate.

Tomboy è un film sulla sensualità dell’effimero e della potenza del passaggio. Sarebbe tristemente limitativo della potenza del film ridurne la complessità alle problematiche della psicologia infantile.
Ciò che è in gioco in Tomboy, sono le strategie del passaggio e di come mi racconto – agli altri e me stesso – mentre passo. Ciò che sorprende del film è l’acuta maturità attraverso la quale la regista riesce a coniugare il racconto che la protagonista fa del proprio corpo mentre si offre allo sguardo come immagine altra che, mentre la guardi, senza che tu te ne renda conto, sta già passando oltre.

L’immagine, dunque, come principio attivo di un erotismo della conoscenza e del rischio.
Ed è questo erotismo del passare, questa vertigine assoluta di un presente vissuto attraverso l’assoluto di un corpo transitorio, nel quale ogni singolo istante è eterno nel suo bruciarsi in avanti rifiutando di lasciare tracce dietro di sé.

Racconto di fantasmi che s’inventano un proscenio sul quale agire il proprio corpo, vissuto come aurora di un divenire intuito come snodo politico in quanto luogo narrazione privilegiato delle proprie mutazioni, Tomboy è anche il racconto, attendibile, di uno spazio sociale condiviso vissuto come verifica costante dei propri equilibri attraverso la partecipazione (la fisicità estrema attraverso la quale la regista filma le partite di calcio è il segno di una verifica che si pratica attraverso l’esserci del corpo non solo come possibilità di primeggiare ma anche come un offrirsi allo sguardo dell’altro per ottenerne – o verificare – il proprio attestato di esistenza).

Unendo in una linea ideale il cinema insurrezionale di Jean Vigo, il cupo romanticismo di Truffaut e l’intensità di certo Doillon (Ponette), Celine Sciamma riesce a dare vita a un film personale e inquieto che riesce a guardare ad altezza d’occhi bambini trattandoli come tali, come esseri umani a tutti gli effetti, evitando con estrema facilità il paternalismo di chi osserva sempre l’altro attraverso la lente della propria immagine (ritenuta erroneamente unica).

(18 ottobre 2011)

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