Il film della settimana: “Viva la libertà” di Roberto Andò

Giona A. Nazzaro

Il cinema politico, cosiddetto d’impegno civile, è il vero cinema di genere italiano. Il macro-genere trasversale a tutti gli altri. Un genere buono per tutte le stagioni. Soprattutto quelle dominate dalle polemiche e dalle incertezze elettorali. Più volte il cinema stesso è sceso direttamente in campo offrendo in tempo reale la misura del farsi della “storia presente”. Da Maledetti vi amerò a Palombella rossa sono numerosissimi i casi in cui il cinema italiano ha scelto di fare direttamente i conti con la società che gli stava intorno. Un controcanto sciolto dalla cronaca. Un affondo per andare oltre la superficie dei dettagli del politichese e abbracciare un quadro più ampio.

Esempio tra i più riusciti di questa tendenza a guardare trasversalmente alla politica del nostro paese, La salita di Mario Martone, episodio del film collettivo I vesuviani, accusato di essere uno spot per Antonio Bassolino, segna invece un momento di audacia formale estrema nel rapportarsi al racconto delle cose della politica e della società italiana. Una libertà che purtroppo non è stata accolta con la dovuta attenzione.

Il divario venutosi a creare nell’ambito del cinema italiano è misurabile nella distanza esistente fra la riuscita assoluta di un film creativo e genuinamente geniale come Palombella rossa e la goffaggine, gelida, de Il caimano che solo nei minuti finali trova l’energia necessaria per essere anche una creazione filmica autonoma. Il punto, a nostro avviso, risiede tutto nella reinvenzione del reale, scelta schiettamente politica, e la mera riproduzione del medesimo.

In questo senso un film come Il portaborse ha fatto scuola sì, ma introducendo una sorta di evidenza giornalistica, riducendo lo spettro delle ambizioni del nostro cinema politico a una sorta di corretta trascrizione polemica dell’attualità del momento. Un modello, insomma, replicato proprio come una volta si replicavano i canovacci dei western o dei gialli italiani.
Non è un caso che un film come Bella addormentata di Marco Bellocchio, che esula completamente da questo schema e che osa affrontare di petto un momento di lacerazione della nostra storia recente, deformandolo attraverso un’osservazione entomologica, sia stato sostanzialmente tacciato d’essere un pamphlet laddove proprio l’apparente, “eccessiva”, leggibilità era il segno della sua libertà d’invenzione. E non è un caso che a Giordana e al suo Romanzo di una strage non sia stata perdonata la libertà di offrire un’altra lettura possibile…

E poi c’è il caso macroscopico de Il divo di Paolo Sorrentino dove l’invettiva e inventiva grottesca di Elio Petri vengono rielaborate attraverso un gusto per l’iperbole visiva che contribuiscono a derealizzare il soggetto contribuendo quasi a farne materia per un racconto fantastico. Non meraviglia che nel caso di Sorrentino la critica non italiana sia ricorsa più volte al cinema di Oliver Stone nel tentativo di esprimere il proprio apprezzamento.
Al fondo, ciò che resta, è la domanda, cui il cinema italiano torna instancabilmente: come si racconta il tempo presente?
Roberto Andò con Viva la libertà sceglie la strada dell’apologo surreale adattando per il grande schermo il suo romanzo Il trono vuoto edito da Bompiani.

Nella vicenda del segretario del maggiore partito d’opposizione, Enrico Oliveri, che scompare dopo essere stato contestato pubblicamente, e del fratello gemello filosofo Giovanni, che si cela dietro un altro cognome, Ernani, dell’intraprendente, idealista Bottini, che intravede nella follia, lucida ma piena di buon senso dell’accademico, lo slancio vitale che manca al lavoro del politico, è evidente una richiesta alla politica stessa, quella che sta al di là dello schermo. E con la richiesta che formula il film di Andò, grosso modo, siam tutti d’accordo.

La ventata d’aria nuova che Ernani introduce nella segreteria del partito e per strada è palpabile: un new deal della speranza, una riscossa della decenza, l’evidenza del giusto.
Oliveri, invece, e qui la metafora è altrettanto evidente, si rifugia a Parigi da Danielle, come lui appassionata di cinema, che vive con un celebrato regista asiatico e, poco alla volta, per una serie di circostanze fortuite, si reinventa come attrezzista di scena. Insomma: si mette a fare il cinema. Come dire: convergenze parallele…

Considerato poi che la storia del PCI è piena di uomini di che per tutta la vita hanno amato il cinema e fatto quotidianamente politica, da Pietro Ingrao a Walter Veltroni, l’Oliveri/Ernani di Andò sembra rispondere a una precisa proiezione intellettuale: il politico esteta, colui che affronta la realtà po(i)eticamente in grado magari di guardare al di là delle contingenze per proiettarsi verso un ipotetico sol dell’avvenire spinto dall’utopico vento della poesia (come dichiara poi la scena chiave del film).

Poesia che, nel caso di Ernani, si offre come poiesis, praxis per eccellenza. Insomma: la coincidenza degli opposti. La quadratura del cerchio. E non sorprenda che nel film si vede un ritratto di Enrico Berlinguer la cui figura storica è (stata) oggetto di una agiografia trasversale (da Roberto Benigni ai CCCP), che ha contribuito a dare vita, in tempi di crisi della sinistra, al mito della politica “buona”.
Inoltre i riferimenti all’attualità italiana nel film di Andò sono puntuali e ineludibili. Cosa che a volte offre paradossalmente l’impressione di trovarsi di fronte o a una traslitterazione di un dibattito che si svolge altrove o a una mimesi che non riesce ad affrancarsi sino in fondo dai motivi che l’hanno originata. Inevitabilmente si produce una sensazione di autoreferenzialità, di un film che si muove come in un acquario.

Tutti gli elementi del cinema politico italiano, ma anche della commedia di costume, sono rispettati al millimetro. In questo senso Viva la libertà è il cinema d’impegno italiano praticato come genere nella sua forma più limpida. Persino la patina da fiction di lusso che smussa alcuni degli angoli della polemica di Andò conferisce al film un’aria di tranquilla familiarità che contribuisce a farne un prodotto rassicurante.

Il tema della follia e della politica, uno dei cardini della poetica bellocchiana, ricondotto a una dimensione di buon senso, perde purtroppo la sua portata eversiva riducendo lo spettro della problematica alla dimensione del solo doppio. Infatti, ciò che ci pare essere curiosamente assente da Viva la libertà è il rapporto con l’esterno, ossia il controcampo della politica stessa (ed è anche una questione strettamente cinematografica). La politica, in Viva la libertà, sembra articolarsi monodirezionalmente: dall’alto in basso (nonostante Ernani, perché nessuno sa che in realtà Oliveri è… Ernani). La “follia”, elemento che mette in discussione il reale, è tanto più interessante proprio in relazione all’esterno. Altrimenti non si fa altro che replicare i modelli del consenso.

Così, l’ennesimo uomo della provvidenza è una sorta di fool scespiriano che dice le cose che nessuno osa dire ma che, anche solo momentaneamente, non può far altro, anzi desidera, occupare una posizione di potere per esprimersi (come lo scrannetto di Hyde Park). Certo poi scompare nel nulla dal quale &e
grave; emerso lasciando il frutto del suo lavoro a chi viene dopo di lui (lasciamo volutamente sospeso il finale…), ma questo miracolo della politica umana è un miracolo che si manifesta ancora una volta dall’alto in basso.

L’apologo di Andò, che può contare sulla presenza maiuscola di Toni Servillo e soprattutto di un sempre più sorprendente Valerio Mastandrea, uno dei pochissimi attori italiani in grado di affermare la propria presenza per sottrazione, esprime dunque, a nostro avviso, compiutamente limiti e pregi di un cinema civile italiano che a volte diventa vittima compiaciuta del proprio discorso.

(14 febbraio 2013)



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