IoRestoaCasa e guardo un classico: ‘Il filo nascosto’ di Paul Thomas Anderson presentato da Fabio Ferzetti
Fabio Ferzetti
Il film della mia vita? Accidenti che domanda! Quando trascorri metà della tua esistenza al cinema, prima o poi qualcuno ti mette davanti a questo dilemma che nasconde un sottile ricatto sentimentale: qual è il film più bello mai visto, quello a cui sei più intimamente e quasi tuo malgrado legato, quello che come una fonte miracolosa continua a produrre senso e bellezza? Passati i cinquant’anni (ma anche i quaranta) la domanda si tinge un po’ di assurdo. Se sei un critico militante hai visto troppi film, sai troppe cose (o sai di non saperle), hai attraversato troppe età, anche del cinema.
A vent’anni avrei risposto di getto Jean Renoir (Una gita in campagna), Robert Bresson (Diario di un ladro) o Kenji Mizoguchi (Gli amanti crocifissi). Oggi fatico perfino a fare la lista dei titoli migliori di ogni anno, che sono sempre troppi, figuriamoci eleggerne uno. Così ho deciso di ribaltare il concetto. Anziché tuffarmi su autori canonizzati, o su un eccentrico sublime, scommetto su Il filo nascosto 1, l’ultimo film di un grande contemporaneo non ancora del tutto consacrato, Paul Thomas Anderson. Sei candidature all’Oscar nel 2018 ma una sola vittoria (ironicamente per i migliori costumi, difficile essere più miopi e banali). Uno di quei film arrivati da non si sa dove che però si accampano subito al centro del nostro presente. Proviamo a spiegare perché.
Se Il filo nascosto fosse una fiaba, i protagonisti sarebbero un re e una popolana che il re ha portato a palazzo essendosene perdutamente innamorato. Senza immaginare che quella popolana, pur amandolo profondamente, per la sua persona e per il potere che incarna, metterà radicalmente in discussione le forme di quel potere. Finendo per sferrare un attacco mortale, o quasi, alla sua persona e alla sua autorità, ovvero ai ruoli rigidamente prestabiliti che quella concezione del potere assegna ai suoi sudditi. Amata compresa.
Ma Il filo nascosto non è una di quelle fiabe, o di quelle saghe piene di supereroi, con cui oggi i grandi studios ipnotizzano le platee globalizzate e infantilizzate iniettandovi quel tanto di temi «moderni» che mandano in visibilio i commentatori. È un film adulto, come oggi se ne fanno sempre di meno. Un film in costume che trae la sua forza metaforica dal rigore dell’ambientazione (a ben vedere, Anderson ha fatto quasi solo film «in costume»). Il capolavoro di un autore che da Boogie Nights a The Master, da Magnolia a Il petroliere, da Ubriaco d’amore a Vizio di forma, non smette di reinventare il suo cinema con una libertà e un’inventiva che derivano anche da una conoscenza profonda dei classici.
Sicché il re non è un re bensì un sarto. Uno stilista geniale e narciso, vagamente ispirato al leggendario Balenciaga, che veste l’alta società inglese a metà degli anni Cinquanta. Ed è così innamorato della propria arte, così assorbito dai piaceri anche sensuali della creazione, così impegnato a sedurre senza toccarle clienti grate fino al deliquio, da non saper amare. Le donne gli piacciono ma lo irritano, lo distraggono, lo deludono. L’unica che tollera è la sorella, complice disillusa e fedele esecutrice dei suoi voleri (geniale, in apertura, la liquidazione dell’ennesima amante venutagli a noia).
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Insomma un monarca che regna su un regno di sole donne negando il loro corpo per dar loro un’anima visibile e frusciante di sete e taffetà (nella scena d’amore più esplicita di questo film vibrante e castissimo, sveste l’amata solo per immaginare meglio come la vestirà). Ma anche un analogo del regista assediato dai fantasmi della creazione (fra i tanti nomi associati al film, Hitchcock, Welles, Kubrick, Ophüls, quasi nessuno ha citato Fellini, ma Il filo nascosto è anche, non troppo segretamente, l’8½ di Anderson). Nonché, last but not least, un campione di quel potere patriarcale al tramonto che Daniel Day-Lewis incarna con il dolore, la rabbia, l’amarezza del leone ferito e incrinato dal dubbio.
Proprio così: il dubbio. Il sospetto che quella cameriera immigrata dall’Europa dell’Est (la bravissima, quasi inedita e tanto più efficace Vicky Krieps), decisa ad amarlo e a sfidarlo, abbia le sue ragioni. E che valga la pena esplorare quelle ragioni, così estranee ai codici e ai valori entro cui è barricato da sempre il sarto-artista-monarca. Anche se per farlo dovesse mangiare un piatto di funghi velenosi. Così, nella scena forse più densa del film, Daniel Day-Lewis, circondato dalle sue anonime e fedeli lavoranti, barcolla, si accascia e travolge il manichino su cui stava prendendo forma la sua ultima creazione. Il re è nudo. Quel manichino senza testa, simulacro di un potere fondato sulla bellezza e il consenso, ovvero sul prestigio conferito dalla bellezza, è stato violato. L’abito lacerato e insozzato dalla caduta certifica l’inizio di una fine. O forse si tratta di un nuovo inizio. Per saperlo dovremmo leggere le parole segrete che il sarto-artista cuce ogni volta nella fodera della sua creazione. Chissà, potrebbe esserci scritto il nome del regista. A meno che, come in fondo sarebbe naturale in un film sul narcisismo, non si tratti del nostro.
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