Il fiume carsico del razzismo di stato

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di Angelo d’Orsi, da il Manifesto

Si è recentemente svolto a Catania un bel convegno organizzato da Giuseppe Speciale, della Facoltà di Giurisprudenza, sui settant’anni dalle leggi razziali. Invece dell’occasione celebrativa e memorialistica, è stato scelto un taglio scientifico e critico. Giuristi, storici del diritto, storici, operatori della giustizia hanno fornito non solo elementi nuovi di conoscenza, ma hanno aperto squarci problematici: questo per le urgenze del presente, cosa assai diversa dal «bisogno di ricordare», espressione ormai quasi insopportabilmente retorica, che lasciamo volentieri agli amministratori alle inaugurazioni di questo genere di raduni. Accanto al bisogno di riportare sotto l’attenzione quelle leggi sciagurate e la loro per fortuna non univoca applicazione, vi è un bisogno morale: come hanno ricordato molti degli intervenuti, l’urgenza dello studio dell’aberrante fenomeno del razzismo deriva dal suo ritorno sulla scena pubblica e nella stessa agenda politica. Michael Stolleis ha parlato di un «impeto morale» che induce lui, e altri studiosi tedeschi, a studiare il nazismo e l’Olocausto, per «comprendere l’incomprensibile». In effetti, si possono studiare quegli avvenimenti per decenni, e rimanere lontani dalla loro comprensione. Come è possibile capire per qual via nella «civile Europa», a cominciare da Germania e Italia, si sia giunto a «infrangere tutte le barriere della morale, del diritto e della civiltà»? Un’altra «civiltà», Hitler e Mussolini, volevano costruire, a partire, magari, dalla trasposizione dell’idea di comunità militare, partorita dalla Grande Guerra (madre di entrambi i movimenti), su un piano di comunità razziale. Opportunamente v’è chi, come Ruggero Taradel, ha ricordato un quadro internazionale, comprendente Romania, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Francia, Polonia: nazioni che adottarono fra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, una legislazione di tipo razziale. E la Santa Sede ebbe responsabilità non irrilevanti.
L’intero continente fu dunque attraversato e travolto da ideologie e pratiche razziste, e in ciò gli apparati giuridici ebbero un peso cospicuo. Ma se il legislatore, asservito ai regimi fascisti e fascistoidi, si affannò a sancire, sulla base di pretese dottrine scientifiche, diversità e gerarchie «naturali» tra i popoli e i cittadini (suddivisi in razze); se gli intellettuali abdicarono facilmente al loro ruolo di custodi della ragione e sacerdoti della verità; la magistratura non fu così prona al potere politico, difendendo, con l’autonomia del proprio giudizio, quella dell’istituzione. Su questa tesi ha insistito Giuseppe Speciale, suscitando qualche perplessità, anche se gli esempi da lui portati (da Domenico Peretti Griva ad Alessandro Galante Garrone: per inciso, suocero e genero!), sono stati convincenti.
Diversi contributi hanno posto l’attenzione sugli aspetti giuridici (puntuale l’analisi di Ferdinando Treggiari, che, soffermandosi sull’articolo 1 del Codice Civile ne ha svelato l’insidioso inquinamento razzista), e sulle incredibili vicende dei mancati o tardivi risarcimenti alle vittime. Michele Sarfatti e il magistrato della Corte dei Conti Silvano Di Salvo, hanno fornito una disamina che ha mostrato come alla fine il diritto al risarcimento era subordinato a imperscrutabili ragioni burocratiche o a petulanti cavilli giuridici, dietro cui v’erano sostanziose ragioni economiche.
Certo il processo che porta alla promulgazione della legislazione del 1938, rimane in buona parte ancora da chiarire. Per tanti versi il Manifesto della razza colse di sorpresa (vi ha insistito Aldo Mazzacane) l’intero partito fascista, compreso il segretario Starace. Iniziativa tutta di Mussolini, come il successivo ingresso nella guerra che si illudeva l’Italia avrebbe vinto con minimo sforzo e massimo risultato. Le cose non andarono così, e la guerra, l’ultima guerra del Duce, fu con la sua tragica uscita di scena, anche l’inabissarsi del razzismo di stato. Ma idee e uomini che le partorirono e le diffusero rimasero in circolazione, dopo che in realtà si era compiuto tutto un lavorio di preparazione ideologica: basilare il ruolo della rivista «La Vita Italiana» fondata nel 1913, da un prete spretato, Giovanni Preziosi, e durata fino al 1943, principale incunabulo del razzismo italico. E decisiva fu la sperimentazione (experimentum in corpore vili) di leggi, pratiche e atti concreti a danno dei «popoli coloniali» nelle guerre africane: in particolare in quella d’Etiopia, conclusasi con la «proclamazione dell’Impero» nel maggio ’36. Da allora il razzismo fascista ebbe una straordinaria impennata, che si valse delle leggi del ’38, oliate sul piano della comunicazione di massa, dal Minculpop, costituitosi nel 1937, e da una pletora di iniziative non soltanto giuridiche, ma «scientifiche» e didattiche.
Si colloca qui una rivista repellente come «La Difesa della razza» di Telesio Interlandi, della quale Francesco Cassata ci fornisce ora una ricostruzione esaustiva nel volume "La Difesa della razza". Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista (Einaudi, pp. 413, euro 34). Non solo antisemitismo, dunque, ma un complesso apparato propagandistico che oggi rimane come un repertorio di nefandezze, scempiaggini, volgarità: un semenzaio di odio, che fece migliaia di vittime. Cassata non si limita a rileggere le annate (uno sforzo pesante quanto encomiabile), ma ricostruisce la fitta trama che sta dietro la pubblicazione, tra intellettuali e istituzioni del regime e, in una serie di cerchi concentrici, altri giornali, altre imprese dei nostri razzisti. Rimane comunque il fatto che pur – come ha ricordato Alessandro Somma al Convegno catanese – essendo lecito e corretto comparare la Shoà (troppo spessa definita «incomparabile»), allargando lo sguardo e stabilendo connessioni e analogie, continuità e discontinuità, l’antisemitismo fascista ebbe specificità proprie. Unitamente agli altri razzismi, appare uno dei connotati fondamentali di un totalitarismo ahimè tutt’altro che «imperfetto».

(26 novembre 2008)



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