Il fragoroso silenzio dell’arte e la fame di mito
Mariasole Garacci
Domani apre al pubblico la 54ma Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, con i suoi padiglioni nazionali e la mostra ILLUMInazioni. Alcuni appunti per una riflessione sullo stato dell’arte e un bilancio generale.
In un racconto di Dino Buzzati, un noto critico d’arte in visita alla Biennale di Venezia viene colto da un pericoloso senso di smarrimento dinanzi il lavoro di un pittore emergente il cui linguaggio parossistico e indecifrabile sembra non dirgli proprio nulla: egli si sforza di estrarre da quei segni una cifra stilistica, un fraseggio da seguire; raccoglie tutti i suoi strumenti di consumato intellettuale, ma stenta: eppure, qualcosa dovrà scrivere! Più tardi, nella sua camera d’albergo, dopo ore di estenuante concentrazione e una bottiglia di whisky, distrutto ma soddisfatto, riesce a cavare qualcosa, una prosa geniale capace di riprodurre, con mirabile e virtuosistica ecfrasi, la forma espressiva dell’opera dell’artista. Assai più modesti acrobati della prosa estemporanea, a dire il vero, non mancano mai, e l’aria (fritta) si inspessisce nelle sale della mostra di teoremi ed evocazioni socio-psicologiche che mi ricordano di stare alla larga dalle cadenzate, sacrali promenades dei secchioni e dei vanitosi.
Perché non c’è parola, non c’è discorso: solo una tormentata afasia – dell’arte, non del critico – in cui prorompe occasionalmente un suono, una sillaba interrogativa, consonanti ringhiate, sussurri troncati. Illuminazioni, le chiama Bice Curiger – direttrice della 54ma Esposizione Internazionale d’Arte e curatrice della mostra centrale – ricordando Arthur Rimbaud e Walter Benjamin. Concrezioni momentanee di pensiero e comunicazione in un sistema rotto, frammentato, diviso e poi moltiplicato in disperse individualità che pure tendono a ricomporre una figura di umanità o, meglio, di socialità.
Uno dei temi emersi in questi giorni, dentro e fuori le sale dei padiglioni, è infatti quello del contenuto politico – segnatamente della capacità di critica e di eversione dello status quo – espresso dagli artisti scelti per rappresentare il loro paese e per dialogare su un’idea di collettività sociale che sia – e questo è il passo successivo – soprattutto azione. Il macroconcetto politico di “nazione” è evocato graficamente dal titolo della mostra principale della Biennale, e sull’idea di comunità artistica come nazione gli artisti sono stati invitati a esprimersi nelle schede loro dedicate in catalogo; soprattutto, da un’arte fatalmente incastrata nel concettuale e che, generalmente, rifiuta come riduttiva la riuscita e l’adeguatezza formale dell’espressione (il bello) si pretende che risorga dalla propria provvida morte hegeliana per tornare a esprimere un contenuto, un mito, una storia. “È venuto il tempo nel quale tutti i poeti hanno il diritto e il dovere di sostenere che sono profondamente radicati nella vita degli altri uomini, nella vita comune”, scriveva nel 1937 Paul Éluard.
Così, numerose sono le opere che riferiscono diversamente di contenuti politici e sociali: il vecchio Llyn Foulkes timbra sul ritratto di George Washington la maschera stravolta di Topolino; guarda la fine del sogno espansionistico americano con occhi spenti e labbra tirate, con profondo disincanto, un Lucky Adam (1985), testone grondante di sangue. Davanti al Padiglione degli Stati Uniti è posteggiato un carro armato, Track and Field il titolo dell’opera firmata Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla: in cima è montato un tapis roulant su cui corrono atleti americani. La misteriosa identità nascosta dietro l’allonimo di Norma Jeane propone un parallelepipedo di pongo con i colori della bandiera egiziana su tre fasce orizzontali, che i visitatori sono liberi di manipolare fino alla distruzione: Who’s Afraid of Free Expression? è così un appello alla ribellione contro l’autorità dell’opera d’arte – qui figura del potere – tramite il mezzo di un’azione diretta, collettiva e inclusiva come quella offerta dai mezzi di comunicazione globale che hanno caratterizzato la protesta nei paesi arabi.
L’atto artistico come luogo ideale di collaborazione, incontro e aggregazione, è un tema ritornante nell’opera di Marinella Senatore, che in Estman Radio Drama (A radio drama in 4 chapters) dà voce agli operai della zona industriale di Marghera e alle loro famiglie. Il sudafricano David Goldblatt racconta storie di apartheid e povertà nella serie Ex-Offenders. Ancora, viaggia sui termini di un appello urgente contro il collasso ambientale The Geppetto Pavilion del francese Loris Gréaud, ma un livello di lettura più profondo rivela che il pericolo è la morte della dimensione spirituale e immaginifica dell’esistenza, destinata ad arenarsi e morire soffocata in un mondo materialistico: sono compromessi il rifugio e la speranza di una palingenesi nel ventre oscuro e profondo della biblica balena di Giona, simbolo di resurrezione.
E l’esigenza di una presa di posizione è anche nell’aria che circola intorno alle opere, tra la gente. Uno degli interrogativi posti agli artisti è se la comunità artistica sia una nazione. Diverse sono state le risposte, ma certo essa ha una propria mitologia e i propri eroi, e uno di questi è oggi Ai Weiwei: il presidente della Biennale, Paolo Baratta, ha espresso l’auspicio che la Cina – il cui padiglione è proprio accanto a quello italiano – comunichi presto “qualcosa di positivo” sull’artista arrestato lo scorso 2 aprile, e l’immancabile status symbol di questi giorni a Venezia è la borsa di tela che invoca “Free Ai Weiwei”.
L’aspetto sociopolitico necessariamente emerso in questa Biennale è stato del resto programmaticamente messo in rilievo dalla stessa Curiger, quando nel suo saggio in catalogo ricorda che alcuni degli stati presenti alla mostra sono oggetto di dati allarmanti forniti da Human Rights Watch – e tuttavia considera l’evento una piattaforma vantaggiosa per tematiche che sarebbe altrimenti difficile proporre all’attenzione internazionale. Un dibattito apparentemente libero – liberato – che la stessa istituzionalizzazione rischia però di ridurre a semplificazioni mediatiche, e che, sempre a proposito della Cina, sta procurando grande attenzione alla mostra Cracked Culture? The Quest for Identity in Contemporary Chinese Art, uno degli eventi collaterali autorizzati: l’effetto è quello di postulare, nella percezione del pubblico, una contrapposizione tra arte ufficiale e arte invisa allo stato, e una ingiustificabile ricezione separata da parte dell’organizzazione stessa.
Ma un insanabile disagio si annida nell’aspettativa di un potere mitopoietico, produttore di narrazione e di coordinate ideologiche da abitare (muore così, colpevole di edonismo, l’art pour l’art), ed è che un’arte passata per tutti gli ismi, ricoverata in un post-concettuale apocalittico e verboso, non trova materiale per una ricerca estetica e formale pura. La fame di mito e, di contro, questo fragoroso silenzio sono probabilmente due facce di un bisogno inappagato che fa guardare all’arte del passato. Tintoretto sta al centro di questa Biennale che si propone di procedere per illuminazioni ed epifanie: insomma, alla ricerca di senso.
Tre tele di Tintoretto aprono
le Illuminazioni veneziane: La creazione degli animali (1550-53), il Trafugamento del corpo di San Marco (1562-66), l’Ultima cena di San Giorgio Maggiore (1592-94): Tintoretto innovatore, Tintoretto contemporaneo: si vorrebbe far continuare la pittura incandescente e le prospettive accese di bagliori e vertigine del maestro nella spregiudicatezza innovativa del contemporaneo, ma in questa non c’è febbre e non c’è passione. Così, nella sala del veneziano gli Invisible Paintings di Bruno Jakob – acqua e vapore – fanno da contrappunto discreto e imbarazzato all’olio infuocato del Robusti; vuole citare i mostri che agitano il brodo primordiale della Creazione l’uccello di Nicholas Hlobo; cerca ispirazione nella Presentazione della Vergine a Santa Maria dell’Orto Monica Bonvicini per scalare lo spazio in una inutile gradinata di specchi.
Può succedere, però, che l’artista decida di plasmare l’opera con una materia nuova, intangibile – e lo fa per via di levare – e di sospendere e sottrarre il nostro tempo alla successione degli eventi e delle percezioni. Giorgio Andreotta Calò riempie lo spazio di assenza (la sua) e attesa (la nostra): l’azione e la trasformazione del corpo attraverso un processo continuato – il cammino, il Ritorno – sposta il limite della rappresentazione oltre il medium. Cammino, impegno umano teso alla penetrazione e alla trasformazione del corpo sociale. Pacifica illuminazione.
(3 giugno 2011)
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