Il “fucile-manifesto”: un vezzo dei terroristi di oggi e di ieri

Elettra Santori

Dopo l’attentato alle due moschee di Christchurch in Nuova Zelanda, i terroristi islamisti hanno qualche alibi in più per appellare gli occidentali, strumentalmente, “crociati” e, in blocco, “cristiani”. Sui caricatori dei fucili utilizzati da Brenton Tarrant, il suprematista ventottenne autore del massacro, erano scritti vari nomi-simbolo, non solo di stragisti e shooter razzisti, come l’italiano Luca Traini, ma anche del doge Sebastiano Venier, uno dei protagonisti della battaglia di Lepanto che nel 1571 vide la sconfitta dei turchi ottomani per mano delle forze cristiane della Lega Santa.

Il vezzo di scrivere o incidere nomi evocativi sui fucili d’assalto ha un precedente eclatante nella storia dello “pseudoterrorismo”, ovvero del terrorismo non ideologico dei mass-killers: nel 1989, il venticinquenne Patrick Purdy di Stockton, California, fece irruzione nella scuola elementare di Cleveland uccidendo 5 bambini con un AK47 su cui aveva inciso, tra le altre, la parola “Hezbollah”: nessun legame tra la strage di Purdy e gli attentati del gruppo terroristico libanese, solo una suggestione estetica ispirata alla bandiera di Hezbollah che reca, su uno sfondo giallo, la sagoma di un fucile d’assalto del genere dell’AK47.

Il terrorismo contemporaneo ha fame di simboli che gli permettano di trascendere il momento della scena del crimine e di conferire magnitudine al proprio messaggio, anche quando quest’ultimo è soltanto un delirio autoriferito, come nel caso dei mass-killers: il simbolo è come un ripetitore che trasmette il segnale a potenza maggiore e a lunga distanza, conferendogli un plusvalore di senso e un’apparente, superiore dignità. È anche così che il terrorismo uccide ben oltre la morte fisica dei caduti conteggiabili ed effonde un timor panico fluido e no border. Il nome di “Hezbollah” (proclamatosi difensore della causa palestinese contro il Leviatano israelo-statunitense) inciso sul fucile di Purdy dava al suo folle gesto il crisma posticcio della violenza giustiziera del debole contro i forti, mentre il riferimento al doge Venier e alle passate battaglie epocali dell’Europa contro l’Islam ha illuso Tarrant che la sua strage razzista potesse levitare al rango della dignità storica. Per un terrorista, istoriare o graffitare il proprio fucile con nomi ed eventi giudicati extra-ordinari è una sorta di rito animistico che ha il fine di potenziare la letalità dell’arma, caricandola della violenza di chi ha già ucciso e del sangue già sparso. L’arma “modificata”, tatuata di nomi, date ed eventi, nella percezione del terrorista uccide di più, scarica addosso alle vittime una violenza che trascende quella del singolo assalitore, come se a colpire fosse un collettivo e non un individuo isolato; e giustifica la strage in atto conferendole motivazioni allargate.

Ai simpatizzanti della causa jihadista non poteva certo sfuggire la portata iconografica del fucile-manifesto di Tarrant. A poche ore dalla strage di Christchurch, in un account twitter presto rimosso, è comparsa una foto clone delle armi istoriate da Tarrant cariche di scritte arabe contro l’Occidente, accompagnate dalla frase “La vendetta è prossima”. I terroristi si osservano, si emulano, traggono ispirazione gli uni dagli altri, che si tratti di jihadisti, suprematisti, pseudoterroristi o narcoterroristi messicani. Pensiamo al modulo della violenza-spettacolo, inaugurato da al-Qaeda con l’attacco alle Torri gemelle e replicato nella macelleria-show dei video delle decapitazioni dell’Isis. Ma anche gli attacchi jihadisti all’arma bianca che si sono osservati recentemente sul suolo europeo sono modellati su un precedente storico: sono i discendenti dell’“Intifada dei coltelli”, ondata terroristica che ha colpito Israele a partire dal 2015, e che ha avuto un’eco a distanza di pochi mesi, nel maggio 2016, in un articolo sulla rivista qaedista “Inspire”, intitolato “O knife revolution”, che incoraggiava l’esportazione dell’Intifada dei coltelli negli Stati Uniti, sostenitori degli ebrei. Passano pochi mesi – è l’ottobre 2016 – e il modello della knife revolution rimbalza dalle pagine di “Inspire” su quelle di “Rumiyah”, rivista di propaganda del Califfato Islamico, che invita i seguaci a non essere schizzinosi verso il coltello, sollecitandone l’uso negli attentati contro gli infedeli.

Il modus operandi dei jihadisti è diventato modello estetico anche per Brenton Tarrant, che ha massacrato le sue vittime seguendo il format dei video di propaganda del Califfato – GoPro montata sull’elmetto, strage in diretta streaming, musica marziale di sottofondo al video –, in un circolo vizioso dove a sua volta lo stesso Tarrant funge ora da ispiratore per i vendicatori del suo gesto. Ma l’estetica jihadista ha colpito l’immaginario anche di altri mass-killers. Pensiamo alla violenza-spettacolo della strage di Las Vegas del 2017, dove morirono 59 persone, fucilate dall’alto di un hotel-casino mentre assistevano a un concerto country: un massacro confezionato in modo panoramico, grandangolare, il punto di fuoco sopraelevato, posto al trentaduesimo piano di un grattacielo, e un cecchino megalomane e inesorabile, metà Lee Harvey Oswald che spara a Kennedy dal sesto piano di un magazzino di libri, metà Zeus lanciafulmini che scaglia una tempesta di fuoco celeste sulla minutaglia mortale. Non è un caso che, poco dopo la strage, l’Isis ne abbia rivendicato la paternità (benché di questo non ci siano prove): la sentiva evidentemente “nelle sue corde”, esteticamente affine e assimilabile alle proprie imprese.

Ma anche le formazioni criminali, come i narcoterroristi messicani, modellano le loro mattanze sull’horrorismo jihadista: è del 2004 la prima decapitazione a favore di telecamera per mano di al-Qaeda in Iraq, gruppo jihadista predecessore dell’Isis; la vittima è l’ostaggio americano Nicholas Berg, l’esecutore probabilmente il terrorista giordano al-Zarqawi. Passano due anni e si verifica in Messico la prima esposizione pubblica di teste mozzate ad opera della “Familia”, gruppo di narcotrafficanti dello stato di Michoacán, che inaugura un uso della decapitazione frequente ancora oggi.

L’emulazione e la diffusione di metodi terroristici tra jihadisti, gruppi criminali e pseudoterroristi individuali è ancora da approfondire, non solo a livello tattico, ma anche da una prospettiva di “estetica del terrorismo”, utile nel momento in cui il terrorismo si fa, tragicamente, spettacolo, colonizza l’immaginario collettivo e la comunicazione mediatica. Si tratta di ragionare per modelli, come fa ad esempio, sul fronte dei rapporti tra terrorismo e macro/microcriminalità, lo studio della Fondazione Icsa dal titolo “Terrorismo, criminalità e contrabbando. Gli affari dei jihadisti tra Medio oriente, Africa ed Europa”: un’ampia ricostruzione dei pattern criminali e affaristici replicabili dai terroristi qualunque sia la loro area geografica di operatività. L’assunto alla base del Rapporto della Fondazione Icsa è che, ai fini dell’attività di contrasto al finanziamento del terrorismo islamista, lo studio della modellistica criminale dei jihadisti è più utile delle (parziali e a volte contraddittorie) stime dei loro traffici illeciti.

Il terrorismo jihadista è sciolto da vincoli morali verso l’essere umano, e questa sua scellerata libertà è ciò che lo rende perversamente “creativo” e imprevedibile. Ma al tempo stesso tende a ripetersi, sia nelle tattiche che nei moduli estetici e nell’operatività affaristico-criminale. Ed è questa sua capacità di autocitazione, oltre che di emulazione, che ci rende possibile, a volte, anticiparne le mosse.
(19 marzo 2019)






MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.