Il Gabinetto Conte (forse) è salvo. E lo Stato?
Giuseppe Panissidi
Finalmente. Il genere umano si sente sollevato. Il Senato della Repubblica democratica, nata, come si suol dire, dall’antifascismo e dalla Resistenza, è riuscito nell’impresa di dare dei punti persino alla Camera, riesumando dal dimenticatoio la nipote di Mubarak. Perché di questo si tratta, dell’assoluzione di un ministro che trasuda segni palesi di volontà di potere e di potenza. Con la differenza che, rispetto al precedente voto parlamentare, sommamente ridicolo, sulla nipote di Mubarak, la presente congiuntura esibisce tratti di drammaticità assai poco ‘melo’.
Appare, tuttavia, singolare che all’universo mediatico, abitato anche da acuti e sapienti osservatori, sia sfuggita la notizia di un intervento, chiarificatore quanto dirompente, del Presidente della Corte Costituzionale. Nel corso del tradizionale incontro con la stampa, il Presidente Lattanzi, al termine della relazione sugli indirizzi della giurisprudenza della Corte costituzionale nel 2018, in risposta a una precisa domanda, ha affermato: “Se l’autorità giudiziaria dovesse ritenere che la decisione è ingiustificata, allora può sollevare un <conflitto di attribuzione>. Poi, ovviamente, si vedrà se è ammissibile o meno”.
Il Parlamento ha opposto il diniego al processo per Salvini, anche sul presupposto che la sua condotta, ricondotta alla collegiale responsabilità del Governo, sarebbe giustificata da un <preminente interesse dello Stato>. Pur tuttavia, la controversia potrebbe ancora dare luogo a una mossa dei giudici, nella forma del <conflitto di attribuzione> davanti alla Consulta. La partita, come d’incanto, si riaprirebbe, e Salvini sarebbe costretto a rinviare la… festa della liberazione.
Esclusa qualsiasi intenzione di interferire nelle scelte delle Camere, in via generale e teorica, sotto un profilo specificamente costituzionale, il Presidente Lattanzi spiega che, qualora i giudici decidessero in tal senso, quel conflitto sarebbe concepibile, sebbene non sia possibile prevederne l’esito, evidentemente.
Proviamo, ora, a considerare tale esternazione con la necessaria attenzione, in punto di diritto.
Innanzitutto, in che cosa consiste un <conflitto di attribuzione>? E su quali presupposti giuridico-costituzionali potrebbe eventualmente essere sollevato dal Collegio per i reati ministeriali del tribunale di Catania?
La risposta al secondo interrogativo si può facilmente rinvenire nella stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale. In riferimento a un’analoga fattispecie, or sono pochi anni, la Corte sancì un principio ‘regolatore’, ovvero che a sostegno delle pronunce assolutorie del Parlamento nei confronti dei ministri dev’essere posta una “congrua motivazione”. In breve, la sovranità del Parlamento si esplica sub condicione, ossia nella rigorosa conformità alla Costituzione e ai principi generali dell’ordinamento giuridico, tra i quali, per l’appunto, l’obbligo della motivazione, secondo i dettami del diritto e della logica.
In costanza di infrazioni dei predetti vincoli, asse strategico fondante e portante dello Stato costituzionale di diritto, in assenza, ossia, di una “motivazione congrua”, cioè conforme ai principi logico-giuridici e al thema decidendum, in virtù della previsione dell’art. 134 Cost., si apre uno spazio per la promozione del predetto <conflitto> tra poteri o istituzioni dello Stato.
In breve, il conflitto si instaura tra organi legittimati a dichiarare e fare valere, in via definitiva, la “volontà del potere cui appartengono”, in forza della legge costituzionale n. 87/1953. Ne discende che il conflitto, schematizzato in dottrina come “interorganico”, virtualmente si genera ogniqualvolta il rapporto normale e funzionale tra i poteri dello Stato assuma dinamiche ‘patologiche’, e di norma in ordine a un atto viziato. In nessun caso, tuttavia, possono essere ammessi “conflitti ipotetici”, dal momento che atti e comportamenti, asseritamente invalidi, debbono essere suscettibili di produrre un’effettiva lesione dell’altrui attribuzione.
Giunti a tal punto, una domanda si impone. Dal voto del Senato quale lesione alle attribuzioni della giurisdizione penale potrebbe derivare? Il Presidente Lattanzi non ha (né avrebbe potuto) specificato e approfondito. Appare, tuttavia, del tutto evidente che la sola lesione possibile concerne il principio costituzionale di “obbligatorietà dell’azione penale”. Se, pertanto, il giudice dei ministri di Catania ritenesse che la motivazione non soddisfa il requisito della “congruità”, avrebbe la facoltà – non l’obbligo – di sollevare il conflitto.
E’, allora, giocoforza spostare e concentrare l’attenzione sulla motivazione in parola.
È vero o no che, contrariamente alle sue ed altrui dichiarazioni, Salvini resta il solo responsabile della condotta incriminata? Inequivoco il dettato dell’art. 95 Cost.: “I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Il Governo decide unicamente nella propria sede istituzionale, il Consiglio dei ministri, ed è più che certo che nessuna decisione al riguardo sia mai stata deliberata in quella sede, a nulla rilevando i tentativi postumi di supporto, a carattere personale e a copertura blindata del ministro Salvini. Solo una boutade giornalistica, naturalmente, l’identificazione del Governo della Repubblica con il ministro dell’Interno, posto che il Governo non si identifica neppure con il premier. Al contrario, è preminente il Consiglio dei Ministri, data la rilevanza delle sue funzioni, coincidenti con la <determinazione dell’indirizzo politico ed amministrativo del Governo>. La dottrina propende a favore di questo indirizzo, in quanto ritiene che, quando si parla di Governo, ci si riferisca al Consiglio dei Ministri e non al Presidente del Consiglio. Figurarsi a un singolo ministro. Anche la legislazione ordinaria, del resto, con la l. 400/1998, indica nel Consiglio dei Ministri l’organo che <determina la politica generale del Governo e, ai fini dell’attuazione di essa, l’indirizzo generale dell’azione amministrativa>.
Da qui l’ovvia conclusione del Tribunale dei ministri di Catania. Incriminato Salvini, ha rapidamente disposto l’archiviazione delle (presunte) notizie di reato relative a Conte, Di Maio e Toninelli, data la palese irrilevanza giuridica delle loro personali assunzioni di corresponsabilità.
Ancora. È vero o no che il Senato si è rivelato incapace di dedurre in modo “congruo”, cioè secondo la logica, la ratio dello Stato di diritto e il fatto, il superiore interesse dello Stato, quale esimente dell’ipotizzato sequestro di persone? Non v’è dubbio in proposito, se si considera che neppure una mente turbata arriverebbe a immaginare la pericolosità, per lo Stato, le istituzioni democratiche e l’ordine civile, di alcuni immigrati. Dai quali ultimi, Salvini avrebbe eroicamente cercato di difendere “i nostri figli”, come ha dichiarato in Senato, con un afflato demagogico strappalacrime degno di miglior causa, (verosimilmente) suggeritogli da amici e sodali legulei.
Entro la specifica ottica giuridica, bisogna, infatti, rimanere tassativamente ancorati al fatto specifico, senza forzarne la portata mediante catastrofiche anticipazioni divinatorie di f
uture invasioni di cavallette. La legge penale contempla e valuta fatti-reato specifici e concreti, commessi o in fieri, non già previsioni future, più o meno perturbanti e angosciose, tipici stati emozionali di pertinenza clinica.
Infine. È vero o no che al Parlamento, (formalmente) democratico, risulta costituzionalmente preclusa qualsiasi possibilità di legiferare contro i <diritti fondamentali> della persona? Ebbene, la relazione della Giunta all’assemblea del Senato statuisce invece che, in costanza di un (preteso) <preminente interesse pubblico>, a un ministro della Repubblica, nell’esercizio delle proprie funzioni, è consentito di ignorarli, alla sola condizione che non si tratti dei <diritti alla vita e alla salute> In altri termini, il sequestro è permesso, a patto che il responsabile nutra la vittima e non la uccida, mentre la libertà resta grottescamente esclusa dalla costellazione dei diritti fondamentali! Con buona pace degli ultimi tre secoli di Storia e Civiltà, culminanti nel primo articolo della <Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo>: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” e nel secondo della nostra Costituzione: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. A quei diritti, per l’appunto, in quanto inviolabili, secondo il giudice di Salvini, nel quadro degli ordinamenti giuridici democratici, spetta, indefettibile, la “tutela giurisdizionale”.
Limpido il riferimento all’<uomo>, senza la specificazione <cittadino>, pur largamente presente in altre disposizioni e principi della Carta. Né può ritenersi un’imprecisione lessicale la formulazione dell’art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”. Il crimine: l’offesa alla libertà. Ma, allora, alla stregua della Carta: prima gli italiani? Oppure, prima gli esseri umani? Giusta e imprescindibile, d’evidenza, la necessità del governo politico, non ideologico, dei flussi migratori, anche nell’interesse dei migranti, di necessità su scala continentale, senza coltivare e implementare cieche pulsioni di rimozione e spostamento, e connesse patologie della mistificazione.
Nella coscienza universale, la lunga lotta contro il nazifascismo e i totalitarismi, da cui ha tratto origine la Repubblica democratica – il Senato ne rappresenta un’articolazione organica e vitale – e il suo anelito “terribile, disperato, atroce” alla libertà, di certo non perseguiva bubbole. Perseguiva il “diritto incomprimibile e fondamentale” della libertà.
Il raccapriccio, come la nausea di Sartre, afferra alla gola.
Invero, quanto è accaduto in Parlamento non potrà non essere seguito, presto o tardi, da effetti perversi. E, magari, verrà un giorno… Un giorno, nel quale tal Salvini, o chi per esso lui, magari camminando sull’acqua, potrebbe proclamare: “L’état, c’est moi!”.
Ecco, dunque, in forma finalmente scoperta, il significato autentico del <preminente interesse dello Stato>. Tra gli applausi festanti dell’ex movimento grillino, anima sacrificale compiaciuta sull’altare di un patto di potere “cinico e baro”, dalle sembianze quasi destinali, rigorosamente in linea con il paradigma socio-antropologico del “sacrificio”. Incurante persino del tracollo dei consensi, buon ultimo l’amaro lucano, solo in parte dovuto ai pur gravi ma sporadici episodi di corruttela, sopporta un flusso emorragico tanto più eloquente, in quanto contestuale e successivo all’approvazione del reddito di cittadinanza e della legge spazza-corrotti. Quel che resta di quel movimento sembra abbarbicato alle trame di un potere/vanità del comando sempre più manifestamente fine a sé stesso, puntualmente supportato, nelle grandi occasioni, dal contributo, significativo e determinante, dell’”impresentabile” (?) Cavaliere di Arcore e dei Fratelli d’Italia [l’Italia s’è dest(r)a].
Repetita iuvant? Al pari del denaro, il potere non olet. Forse anche perché “il potere è apparenza”, secondo un ardito pensiero del ‘900, attribuito per primo a Napoleone Bonaparte. Dev’esserci, tuttavia, del vero, in siffatta idea del potere. Se vaste frazioni di popolo plaudono appassionatamente al capo leghista, bisognerà pur chiedersi quali eclatanti (e misteriosi) successi la sua azione politica abbia conseguito, tolta l’anti-politica dell’immigrazione. Al pari del reddito di cittadinanza per i 5s, infatti, quota 100 non sembra determinante. Forse, la psicologia e l’antropologia di massa, come sempre nella storia, contano di più, talora in modo decisivo.
Eppure, ironia della sorte, l’invenzione epocale dei porti chiusi premia Salvini, non già Di Maio, che, pure, “concorda”! E i migranti non possono certo attuare la “diplomazia delle cannoniere”, come le grandi potenze occidentali, nei secoli scorsi, davanti ai porti dell’estremo Oriente. Un trionfo a cinque stelle, comunque, il danno e la beffa, tale da fare impallidire e perdere d’importanza finanche l’exploit politico-elettorale del 4 marzo 2018.
Ora, però, messa al bando la fiction, anche dei mahjong, i giochi cinesi, giù le maschere. È il momento del dovuto omaggio a Luigi Pirandello, all’arte di “vedersi vivere”.
In letteratura, ampia la gamma delle teorie del <cambiamento>. Integrate con le pratiche dell’Esecutivo attuale, ne risulterebbe vagamente stravolta. Il conclamato cambiamento, infatti, si manifesta essenzialmente attraverso l’allegro <mutante> fumettistico di… giubbe in sequenza. Indossando quella di giudice, il leghista si è auto-assolto da ogni reato. La tradizione culturale occidentale, quasi duemila anni dopo l’”Heautontimorumenos” di Terenzio, “Il punitore di sé stesso”, ora si arricchisce con un’opera non meno intrigante, “Il giudice di sé stesso” di Salvini. A Di Maio, di converso, l’interpretazione del “punitore di sé stesso”. Non è, infatti, Salvini a “oscurare i meriti” dei 5s, ma sono questi ultimi a precipitare in black-out, a causa della loro pervicace acquiescenza al leghista, pur di proseguire l’esperienza di governo e scongiurare la verifica elettorale anticipata.
Sono trascorsi due secoli da una penetrante riflessione di Giacomo Leopardi, nell’estate del 1817, quando, in un diverso contesto, nello “Zibaldone”, annotava: “ [… ] ora si viene da un tempo corrotto (oltreché si sta pure tra’ corrotti), e bisogna porre il più grande studio per evitare la corruzione, principalmente quella del tempo, la quale prima che abbiamo pensato a guardarcene s’è impadronita di noi, e poi quella dei tempi passati… Ma questa è una bella curiosità, che mentre le nazioni per l’esteriore vanno a divenire tutta una persona, e oramai non si distingue più uomo da uomo, ciascun uomo poi nell’interiore è divenuto una nazione, vale a dire che non hanno più interesse comune con chicchessia, non formano più corpo, non hanno più patria, e l’egoismo gli ristringe dentro il solo circolo de’ propri interessi, senza amore né cura degli altri
, né legame né rapporto nessuno interiore col resto degli uomini”.
“Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo…” nono.
Altro che Stato e Nazione. Altro che <preminente interesse> dell’uno e dell’altra.
Vero è che, sul piano sostanziale, il conflitto di attribuzione è già stato innescato dal Senato, nel momento in cui, con tipico “sviamento di potere”, ha straripato nel merito delle fattispecie dei reati attribuiti al Salvini, invadendo la sfera delle prerogative giurisdizionali. Solo per esemplificare. Il Senato invoca l’assenza di “conseguenze permanenti” dell’operato del ministro. Un buon ripasso dei rudimenti del diritto, della dottrina e della giurisprudenza non avrebbe certo guastato. Il delitto di sequestro, infatti, inscrivendosi nel novero dei “reati comuni di danno”, si consuma nello stesso momento in cui ha inizio la privazione dell’altrui “libertà di movimento nello spazio” e cessa quando la coercizione ha termine. Il suo carattere “permanente” presuppone un tempo apprezzabile, ma breve. Studiare, studiare, studiare, parafrasi di uno slancio d’antan di Civiltà giuridica ed etica.
L’invasione di campo, da parte del Senato, è patente. In materia di reati ministeriali, infatti, la competenza a conoscere e agire, previa qualificazione giuridica della condotta ‘funzionale’ del ministro, appartiene esclusivamente al giudice penale. Al Parlamento spetta la sola funzione, ancorché dirimente, di valutare se la condotta del ministro, a prescindere dalla qualificazione giuridica della stessa e dello stesso eventuale reato, meriti la ‘scriminante’ che potremmo latamente definire “ragione di Stato”.
E però, “nulla mai finisce – scriveva Rudyard Kipling or sono cent’anni – finché non finisce nel modo corretto”.
Pare proprio che siamo alla frutta, come si suol dire, benché resa meno indigesta dal guadagno costituzionale appena e opportunamente lambito dal premier Conte. Non più “esecutore” di un contratto (privato), ma “servitore dello Stato” (art. 95 Cost.: in memory of). Ci sorprende, ammirati.
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