Il gioco della composizione. I bambini e la musica
Giacomo Fronzi
Uno dei temi più rilevanti ma, al tempo stesso, meno dibattuti riguarda quella che potremmo definire la “situazione pedagogica della musica”. Il nostro Paese, culla di grandissimi compositori, eccellenti musicisti e teorici di prim’ordine, finora non si è mai dimostrato all’altezza della tradizione che lo caratterizza, sottovalutando l’importanza di un’adeguata formazione musicale dei giovani, fin dalla tenera età. Emanuele Pappalardo, compositore e didatta, con il suo Composizione, analisi musicale e tecnologia nella scuola primaria. I bambini compongono, raccontano, analizzano, riflettono (ETS), ci dimostra come sia possibile accompagnare i bambini in percorsi di conoscenza e di produzione della musica che parrebbero impensabili, sollecitando, con il suo lavoro, la riflessione teorica e pedagogica, ma anche quella politica.
L’interessantissimo libro di Pappalardo, volendo in prima istanza individuare i suoi nuclei essenziali, ci invita a riflettere e, in qualche modo, a ripensare due grandi questioni: il rapporto tra musica e tecnologia e la qualità della formazione musicale in Italia.
Intanto, cosa possiamo intendere quando parliamo di tecnologia applicata alla musica? Evidentemente, quello tra tecnica, tecnologia e prassi artistica è un rapporto che c’è sempre stato e ha coinvolto sia la dimensione “logistica” sia quella strettamente strumentale. Nel corso del Novecento, però, interviene una novità rilevante, in concomitanza con l’invenzione dell’elettricità e, più in là, dell’elettronica. Con lo sviluppo delle tecnologie elettriche ed elettroniche, la storia della composizione musicale prende un’altra direzione, del tutto inedita, che produrrà risultati impensabili.
Una tale rivoluzione non poteva che essere il frutto della combinazione tra progresso tecnologico e riformulazione del pensiero musicale. A questo riguardo, Luciano Berio ha sintetizzato in modo efficace il suo punto di vista su questa relazione: «Boulez tende a pensare, per esempio, che l’architettura è cambiata a causa del vetro e dell’acciaio e che, analogamente, la musica dovrebbe cambiare a causa delle nuove tecniche, del computer, ecc. Infatti, parlando di musica elettronica, Boulez tende a dimenticarne la storia, sembra furiosamente portato a dimenticare le realizzazioni di Stockhausen e di altri (me compreso). Io invece continuo a credere che sia stato il pensiero architettonico, con la vastità delle sue determinazioni e funzioni, ad accorgersi del vetro e dell’acciaio, così com’è stato il pensiero musicale, agli inizi degli anni ’50, ad accorgersi degli oscillatori e dei generatori di suono in genere, che erano già là così come, per gli architetti, erano già là il vetro e l’acciaio»[1].
Se la situazione è questa, potremmo allora dire che la musica composta e ascoltata mediante l’utilizzo di strumenti elettronici non è una fase come altre della storia della musica, non è soltanto un suo momento genetico. Alle sue origini è possibile individuare nodi concettuali che rendono la ricerca elettroacustica l’espressione evidente di processi che, più o meno esplicitamente, rinviano a una dimensione extra-artistica: basti pensare a questioni come la producibilità/riproducibilità tecnica, il rapporto uomo-tecnica, la funzione politica dell’arte, la democratizzazione/massificazione del messaggio estetico, il processo di estetizzazione diffusa, il ruolo del pubblico nelle dinamiche di costituzione dell’opera d’arte, le nuove pratiche d’ascolto, ecc.
Le esperienze che, negli anni Quaranta e Cinquanta del XX secolo, si sviluppano in Francia (con Pierre Schaeffer e Pierre Henry), in Germania (con Herbert Eimert e Karlheinz Stockhausen), in Italia (con Luciano Berio e Bruno Maderna) o negli Stati Uniti (con John Cage, Vladimir Ussachevsky e Otto Luening), si presentano come un traguardo, ma anche come un momento di rottura e come l’inizio di una nuova era. Apparentemente contraddittoria, la “musica elettroacustica” – formula con la quale, negli anni Cinquanta, viene definito quell’universo sonoro nel quale convivono musique concrète e Elektronische musik – nasce in relazione alla musica seriale, rispetto alla quale si pone o come sua possibilità di sviluppo estremo o come l’espressione della sua più feroce critica.
Non è questa la sede per ricostruire i dettagli e i caratteri di questa rivoluzione, basti ora soltanto richiamarne la portata, così da collocare adeguatamente la ricerca di cui si parla nel volume di Pappalardo, al quale va riconosciuta l’ottima capacità di combinare esperienza compositiva, conoscenze tecniche e vocazione didattica. Il merito di questo lavoro, in prima battuta, si presenta nella forma della sfida entusiasmante, supportata da solide basi teoriche e da importanti riferimenti musicologici, sociologici e pedagogici. La sfida consiste nel verificare la possibilità di rendere i bambini capaci di comporre musica utilizzando, con consapevolezza, le nuove tecnologie digitali. A questo riguardo, Pappalardo precisa come la ricerca oggetto del volume – la cui presentazione è disponibile qui – si sia basata sull’utilizzo del computer, cioè di una «tecnologia di base […] facilmente disponibile in ogni contesto formale, non formale e informale», cercando di sviluppare, nel modo più produttivo possibile, le enormi potenzialità offerte dalle nuove tecnologie anche in ambito audio. Generalmente, sottolinea l’Autore, «il computer viene utilizzato per creare prodotti i cui contenuti ricalcano i luoghi comuni legati alle applicazioni commerciali della musica, prodotti che avrebbero poca giustificazione se creati facendo ricorso a strumenti tradizionali ma che invece ricevono credito per il solo motivo di aver utilizzato un computer» (p. 56).
Pappalardo non trascura di notare il rischio di “ideologizzazione” che si corre nell’enfatizzare in modo acritico l’utilizzo di questo mezzo tecnologico, del quale, tuttavia, non si possono ignorare i vantaggi: «Il primo […] fra tutti è la possibilità di lavorare sui contenuti azzerando la necessità di acquisire competenze musicali specifiche. Attraverso l’uso di semplici, ma non banali, software per la registrazione, l’elaborazione e l’editing del suono è possibile comporre, ossia dare concretezza, a progettualità anche molto complesse. E con la stessa facilità è possibile ricorrere in tempo reale a prove di commutazione (alterazione di qualche parametro compositivo) che possano verificare la coerenza o meno di proposte analitiche e concretizzarne le potenzialità in vista di uno scopo» (p. 56). Ci sono poi altre dimensioni che l’utilizzo del computer chiama in causa, come l’ausilio che esso può rappresentare in presenza di disabilità o di conflitti interpersonali, così come anche in relazione ai tre sintagmi che definiscono gli obiettivi di apprendimento della disciplina “Tecnologia” previste dal curricolo: vedere e osservare; prevedere e immaginare; intervenire e trasformare.
A partire da queste premesse teorico-pratiche, Pappalardo ha realizzato il suo progetto, del quale questo volume –
arricchito dalla prefazione di Mario Piatti e dall’introduzione di François Delalande (che ha anche supervisionato gli elaborati dei bambini coinvolti nel progetto) – rappresenta il report conclusivo. Il progetto di ricerca, articolato in tre fasi («la scelta»; «alla ricerca di un istituto ‘comprensivo’»; «accordi e organizzazione») e che si è sviluppato tra ottobre e dicembre 2017, ha visto collaborare due realtà formative di Latina: il Conservatorio “Ottorino Respighi” (Dipartimento di “Didattica della musica” – discipline compositive) e l’Istituto comprensivo “Giuseppe Giuliano”. Già una collaborazione di questo tipo costituisce motivo di interesse, ma ancor più rilevante è stato il risultato di tale collaborazione. Pappalardo, avvalendosi anche del lavoro di Luca Marrucci, ha dato vita a una “ricerca-azione”, sulla scorta del modello elaborato da Kurt Lewin, considerato particolarmente adatto ad ambienti nei quali la ricerca viene «agita»: «quello di Kurt Lewin – scrive Pappalardo – è un modello che include esperimenti condotti su gruppi veri ed esistenti. La ricerca azione è concepita come una procedura sperimentale (dato che prevede esperimenti sul campo, cioè condotti su gruppi reali in contesti sperimentali) finalizzata da un lato a produrre dei cambiamenti controllati (cioè pianificati) in campo sociale (Planned change), dall’altro ad acquisire conoscenze generalizzabili in rapporto all’oggetto di indagine» (p. 61).
Pappalardo spiega nel dettaglio gli obiettivi che, coinvolgendo quindici alunni (e le loro famiglie) della VA della scuola primaria, divisi in due gruppi, si intendeva raggiungere, con l’intento di rilevare: 1) tempi di apprendimento necessari alla gestione algoritmica di un software professionale di registrazione, elaborazione ed editing del suono; 2) tempi necessari per mettere in atto strategie compositive e analitiche in relazione a progettualità esplicitate e condivise; 3) dinamiche relazionali che sviluppa il gruppo durante le attività di analisi collettiva; 4) possibilità di realizzare in tempi brevi percorsi interdisciplinari e transdisciplinari (p. 61).
È a partire da queste premesse che nasce e si sviluppa un progetto estremamente interessante e che ha prodotto risultati che, senza dubbio, verranno assunti come modello per ulteriori e analoghe ricerche. Come ha scritto Delalande, si è trattato non di sonorità prodotte da tubi o da bottiglie di plastica, ma di lavori che i bambini hanno realizzato utilizzando un computer e altri strumenti tecnologici, condividendo costantemente il risultato del proprio lavoro. «Dopo due sessioni di circa un’ora ciascuna, per spiegare il software a ciascuno dei due gruppi, i bambini – scrive Delalande – sono lasciati liberi di realizzare, individualmente a casa, una sequenza di uno o due minuti che presenteranno al gruppo durante la sessione seguente. La sessione collettiva è quindi un momento in cui ogni giovane creatore espone le proprie intenzioni e scoperte e riceve l’apprezzamento critico dei compagni. Questa analisi individuale e collettiva rappresenta la grande originalità e riuscita di questo protocollo che invita a presentare e spiegare il proprio lavoro creativo, a esprimersi sulla produzione degli altri e permette agli educatori di precisare alcuni concetti analitici per arricchire lo scambio» (p. 16).
Un esempio virtuoso, che meriterebbe di essere “esportato”. Non solo perché si presenta come una felice collaborazione tra agenzie formative diverse, non solo perché fa leva su un ormai “naturale” rapporto che le nuove generazioni maturano, fin da bambini, con le nuove tecnologie, ma anche e soprattutto perché può costituire un modello di riferimento nella lunga e faticosa opera di rafforzamento, quanto mai necessaria, della didattica e della pedagogia della musica.
Ampliando lo sguardo, non si può negare come sia essenziale, nello sviluppo della sensibilità e della personalità dei bambini e dei giovani, approfondire lo studio della musica. Un approccio consapevole alla musica orienta verso visioni del mondo, della realtà, delle relazioni e del futuro diverse, nuove, migliori. A questi temi si congiungono anche quelli legati alla disponibilità al dialogo e all’ascolto. La possibilità di disporsi all’ascolto in modo attento e recettivo dipende strettamente dall’interesse che si ha nei confronti di ciò che ci si accinge ad ascoltare. E questo accade tanto nella relazione con l’altro quanto nel rapporto con la musica.
C’è un legame strettissimo e profondo tra sensibilità, gusti musicali, ascolto e “pedagogia musicale”. Theodor W. Adorno, tra le tante questioni teoriche che ha affrontato, si è occupato anche di questi temi, segnatamente nel saggio A proposito di pedagogia musicale. In queste pagine, si legge: «Lo scopo della pedagogia musicale è di sviluppare le capacità degli scolari in modo che essi arrivino a comprendere il linguaggio della musica e le più importanti opere musicali, siano in grado di coglierne il senso quel tanto che è sufficiente per capirle, e giungano al punto di saper distinguere la qualità e il livello delle opere e, mediante l’esattezza delle percezioni sensoriali, intendano l’elemento spirituale che costituisce l’interiore contenuto di ogni opera d’arte»[2]. Potremmo pensare, di primo acchito, che Adorno alzi troppo l’asticella delle aspettative e che sia difficile sperare di raggiungere risultati di questo tipo. Forse è ancora così, per quanto sia necessario porsi obiettivi minimi come quelli enunciati da Adorno, per il quale, come si sa, il miglior risultato possibile sarebbe quello di sviluppare un «ascolto strutturale», grazie al quale si esercita la capacità di percepire i nessi musicali, di cogliere l’opera come un discorso pregno di significati.
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L’operazione condotta da Pappalardo, dettagliatamente ricostruita, raccontata e commentata nel libro Composizione, analisi musicale e tecnologia nella scuola primaria, testimonia come sia possibile elaborare strategie didattiche innovative, feconde e creative, confermando, più o meno intenzionalmente, quanto Adorno ha espresso con queste parole:
Dalla musica ci si può ancora aspettare un aiuto sul piano umano: e questo non certo sul modello della pedagogia e della terapia del lavoro, né dell’inserimento pre-artistico in comunità, né insomma da quei fattori che sono psicologicamente regressivi, ma solo se chi impara la musica comprende, senza riguardo a se stesso, ai suoi bisogni e alle sue restrizioni, qualcosa di ciò che la musica d’arte in sé è e promette[4].
NOTE
[1] L. Berio, Intervista sulla musica, a cura di R. Dal Monte, Editori Laterza, Roma-Bari 20113, pp. 147 e 149.
[2] Th.W. Adorno, A proposito di pedagogia musicale, in Id., Dissonanze, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 129-153: 131.
[3] Ivi, p. 132.
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