Il leviatano dell’Unione Europea e l’attacco alla democrazia
Alberto Bradanini*
In questa funesta congiuntura, viviamo tutti tempi duri, ma per disoccupati, inoccupati, precari, e in generali tutti gli esclusi, i tempi sono drammatici, e sfiorano la soglia della sopravvivenza. Molti hanno perso il lavoro, regolare o a nero, e non hanno di che vivere, ancor meno immaginare un futuro per sé e per i loro figli.
Vale la pena ribadire che l’Unione è oggi un’istituzione non-democratica, priva di un governo, amministrata da funzionari non eletti, la cui carriera e stipendi stellari dipendono dalla sopravvivenza di un Leviatano fondato su norme incomprensibili a un cittadino europeo mediamente colto. Reputo che pochi abbiano mai trovato il coraggio di scorrere le norme costituzionali europee, vale a dire il Trattato sull’Unione Europea (TUE, Trattato di Maastricht), il Trattato che modifica il trattato sull’Unione Europea (TFUE, Trattato di Lisbona) sul funzionamento dell’Unione europea o il TCEE (il Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea). Si tratta di testi – che da una norma rinviano a un’altra o ad addendum reperibili solo dopo lunghe ricerche. Senza iperbole, essi possono definirsi incomprendibili, un labirinto fabbricato per nascondere significati giuridici e obiettivi politici, dirottando l’attenzione di sudditi chiamati a obbedire senza capire.
In occasione della tragedia del virus, non v’è stato bisogno di molte parole per acquisire la conferma che l’Unione meriterebbe invece il titolo di Disunione, una costruzione artificiale dove prevale la legge della giungla, quella del più forte, non certo quello spirito di solidarietà di cui sono piene le pagine dei Trattati e il lessico mistificatore dei suoi funzionari, oltre a quello dei politici italiani ad essa soggiogati. Nel momento in cui la violenza del virus soffiava più forte sul martoriato territorio italiano, i nostri partner europei (certo non amici) ci negavano persino le mascherine di protezione legalmente acquistate o in transito.
Le leggi europee, che hanno prevalenza su quelle approvate dai parlamenti nazionali, vengono preparate da funzionari sotto la quotidiana pressione delle lobby industriali che affollano le strade di Bruxelles. Fatte proprie dalla non-eletta Commissione e dopo un rapido passaggio all’Euro-Parlamento, le leggi sono quindi definitivamente approvate dal Consiglio, dove le decisioni possono essere adottate a maggioranza, e dunque sempre e solo se la Germania è d’accordo. In buona sostanza, un cumulo di oltraggi.
Il pesante deficit democratico nell’Ue ha portato alla mortificazione del mondo del lavoro e al degrado dei servizi sociali, al massacro delle economie del Sud Europa, alla criminalizzazione del ruolo dello Stato in economia, alla sottomissione alle oligarchie nord-europee mondializzate (con la complicità, va detto, di quelle del Sud, comprese quelle italiane, sempre in posizione gregaria).
Nel 1992, con il Trattato di Maastricht – adottato senza un serio dibattito e tantomeno una consultazione popolare – inizia dunque il percorso verso la destrutturazione istituzionale della statualità democratica dei paesi membri. Strumento cruciale di tale processo è la moneta comune, troppo debole per la Germania e troppo forte per i paesi del Sud, che senza un governo redistributore avrebbe arricchito il Nord depauperando l’Italia e gli altri pigs. Con la moneta unica F. Mitterrand intendeva imbrigliare nel solco europeo il sempre incombente nazionalismo tedesco. Diversamente dagli intenti mitterandiani – la storia insegna che azioni intenzionali possono generare conseguenze non intenzionali – l’euro ha portato invece all’egemonia economica, e ormai politica, della Germania in Europa. Nel XX secolo l’Europa aveva un problema e il suo nome era Germania. Nel XXI secolo – sotto un cielo diverso, certo – non sembra che la scena sia molto diversa.
A partire da Maastricht i paesi europei perdono la facoltà di emettere moneta, di imporre limiti alla circolazione dei capitali a tutela dell’interesse pubblico, di legiferare su temi economici e finanziari senza la luce verde di Bruxelles-Berlino, di stipulare trattati commerciali con paesi terzi, di proteggere le frontiere secondo leggi democraticamente approvate. La riunificazione delle due Germanie, seguita al crollo sovietico, ha rappresentato una tappa cruciale verso il traguardo di un’Europa a guida tedesca all’insegna del cosmopolitismo delle élite (da non confondersi con l’internazionalismo, che costituisce l’alleanza tra ceti subalterni di nazioni diverse). In quegli anni, nella complicità di media e accademici distratti o assoldati, s’impone l’egemonia della subalternità al mondialismo da parte dello Stato (o delle sue spoglie), contro i populismi (un termine che accumuna in verità poveri, disoccupati, sottoccupati, inoccupati e una classe media falcidiata) e i sovranismi, sostantivo dalla duplice accezione, una di stampo reazionario che mira a un capitalismo rapace di profilo nazionale, un’altra democratico-sociale, partigiana del risveglio dello Stato, non contro altri stati come vorrebbe la strumentale ermeneutica di mainstream, ma a baluardo degli interessi dei ceti dominati e a bilanciamento della bulimica mano invisibile dei mercati, perennemente affamati di profitto. La strategia di dominio del capitale finanziario multinazionale assegna all’Unione Europea il compito di demolire lo stato indipendente, il solo contenitore che a determinate condizioni consentirebbe ai ceti subalterni di opporre una significativa resistenza. È essenziale, se non vuole morire da sprovveduti a tutela di interessi altrui, che l’Italia recuperi l’iniziativa politica, monetaria e fiscale, cogliendo questa straordinaria occasione di ridefinizione dei rapporti di potere in Europa.
Sia chiaro: uscire dall’euro sarebbe traumatico, questo governo non ne avrebbe capacità di gestione e non esistono le condizioni politiche. Mi limito ad auspicare che il governo trovi il coraggio di emettere ‘statonote’ circolabili solo in Italia, consentendo alla nostra economia di riprendersi. Svariati economisti di valore possono essere reclutati per una proposta tecnicamente realizzabile, e forse anche qualche governo amico potrebbe essere interessato.
Oltre alla scarsa indignazione popolare, impedita però dall’oscuramento mediatico e dalla cecità dei governi in carica, sconcerta l’inerzia del nostro mondo intellettuale incapace di dar vita a un minimo di rappresentanza politica alternativa.
È appena il caso di rilevare che una presa di distanza dalla tecnocrazia liberista-euro-mondialista non equivarrebbe a negare i profondi legami, storici, culturali ed economici che uniscono tra loro le nazioni europee. In un alternativo percorso confederativo tra stati sovrani, tutt’altra cosa rispetto alla realtà odierna, la recuperata sovranità costituzionale (nulla a che vedere, è appena il caso di rilevare, con nazionalismo), essenza connaturata a qualsivoglia entità statuale, consentirebbe anche ai paesi minori un’adeguata tutela dei loro interessi davanti alle grandi nazioni e alle corporazioni transnazionali.
Che un’Europa socialmente umiliata e con tale deficit democratico, sfugga allo sguardo critico del pensiero politico di sinistra resta uno dei misteri dolorosi ancora irrisolti (o meglio risolvibili, ma non in questa sede). È inoltre strumentale – come affermano i sostenitori ab aeternum dell’attuale tecnostruttura – attribuire il merito del mantenimento della pace in Europa negli ultimi 74 anni al processo di costruzione europea. La pace infatti è stata garantita, e nemmeno ovunque (basti gettare lo sguardo sull’ex-Jugoslavia) dall’equilibrio del Terrore, con la Nato da una parte e il Patto di Varsavia dall’altra, e non certo da un vivificante processo unionista tra nazioni le quali, tranne il Regno Unito, erano uscite tutte umiliate dal secondo conflitto mondiale, ed erano dunque alla mercé del disegno egemonico americano, a favore sin dall’origine dell’unificazione europea la quale avrebbe semplificato il controllo americano sui paesi europei in funzione anti-sovietica.
Eccoci tornati in Italia, dove la sinistra parla da anni di diritti invece che di bisogni, di cittadini invece che di lavoratori, di elettori invece che di popolo. Servizi sociali, salariati e classe media pagano tuttora un prezzo altissimo sull’altare del falso mito dell’unificazione europea, che con la retorica del vincolo esterno ha piegato le resistenze domestiche sulla strada della destrutturazione dello Stato, vilmente accusato di corruzione generalizzata e acritica dissipazione di risorse pubbliche. Oggi gli elettori e le élite di sinistra vivono nei quartieri-bene, mentre salariati e disoccupati sono relegati nelle lontane periferie e non a caso fanno scelte reazionarie.
Cruciale rimane beninteso la distinzione tra chi punta alla demolizione di questa Europa a favore di politiche nazionali egualmente liberiste e di classe, e chi invece si batte per il recupero della sovranità costituzionale e dell’indipendenza monetaria-fiscale dello Stato quale presupposto per una democratica attuazione di politiche di coesione, piena occupazione e investimenti sociali.
L’informazione e gli approfondimenti di MicroMega sono possibili solo grazie all’aiuto dei nostri lettori. Se vuoi sostenere il nostro lavoro, puoi:
– abbonarti alla rivista cartacea
–
– acquistarla in versione digitale: | iPad
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.