Il liberale. Chi era costui?
Pierfranco Pellizzetti
Contrariamente a quanto sostenuto dal politologo Jan Zielonka nel recente best-seller “Contro-rivoluzione. La disfatta dell’Europa liberale” (Laterza), nel “fatidico” 1989 a vincere la partita non fu la Democrazia né la Libertà liberale, bensì il Turbocapitalismo. La rilettura di “Passioni e vincoli. I fondamenti della democrazia liberale” di Stephen Holmes è un buon antidoto allo stato confusionale degli odierni liberali.
materiale o morale conquistato collo sforzo volontario,
col sacrificio, coll’attitudine a lavorare d’accordo con
gli altri. I nomi non contano»[1]
Luigi Einaudi
«Poiché l’eguale godimento di tutte le libertà essenziali
è il fine supremo del liberalismo, si può e si deve usare
la forza organizzata della collettività per accrescere i
diritti dell’individuo»[2]
William Beveridge
Jan Zielonka, Contro-rivoluzione – la disfatta dell’Europa liberale, Laterza Roma/Bari 2018
In dialogo con l’ombra di sir Dahrendorf
Anche se qualcuno (come il sottoscritto) ha continuato a non accorgersene, nel fatidico 1989 del crollo del Muro di Berlino e la liquefazione dell’impero del male sovietico sarebbe avvenuto qualcosa di straordinario: l’instaurazione del Regno della Libertà liberale. Tesi che fa da controcanto a quella, allora più mediatizzata (e altrettanto immaginifica?), parto del politologo neo-hegeliano Francis Fukuyama e nota come “Fine della Storia”.
L’ennesima “rivoluzione liberale”, che noi italiani, negli anni successivi, ci siamo dovuti sciroppare da imbonitori vari, che andavano da Massimo D’Alema a Silvio Berlusconi, e che ora ci ripropone nel suo recente best-seller il politologo polacco Zielonka, Ralf Dahrendorf Fellow al St. Antony College di Oxford.
Il punto di partenza è l’assunto dahrendorfiano che nel 1989 si sia instaurato un nuovo ordine i cui capisaldi sarebbero «la politica liberale dei confini aperti e degli interventi umanitari, […] un’Europa pacifica e integrata» (JZ pag. 84). Dunque, cooperazione interstatale, liberismo costituzionale ed economia liberista. La popperiana Società Aperta, inclusiva e critica, diritti e mercato.
Ma è davvero questo l’esito di quanto allora era successo nel cuore dell’Europa?
Forse la deduzione del Candide polacco che poi «gli ideali liberali sono stati compromessi o traditi dalla generazione di politici e intellettuali post-1989» (LZ pag.156), sicché «oggi assistiamo all’affermazione di una potente contro-rivoluzione che mira a smantellare la democrazia liberale e a sostituirla con una nuova forma istituzionale indecifrabile e forse spaventosa», andrebbe rettificata drasticamente prendendo atto che la vera contro-rivoluzione avvenne allora. Proprio nell’appunto “fatidico” 1989. Quando – ormai lo si verifica sulla pelle di noi sventurati – a vincere la partita non fu la Democrazia né tantomeno la Libertà liberale, bensì il Capitalismo.
O meglio, il cosiddetto Turbocapitalismo inteso come finanziarizzazione globalizzata che sostituiva l’investimento industriale con forme di accaparramento selvaggio al servizio della rinascente plutocrazia. L’occasione colta dal nuovo “liberi tutti” creatosi nell’Ottantanove dalla rottura dei sigilli nel vaso di pandora della Guerra Fredda, con conseguente eliminazione dei contrappesi che sino ad allora avevano addolcito il Potere a Occidente: l’evaporazione dell’Impero del male sovietico, mentre già da tempo il modo di produrre post-fordista e l’avvio della fase di de-industrializzazione nelle società a capitalismo maturo (il primo esempio di de-localizzazione transnazionale risale al 1962, con lo stabilimento di montaggi industriali della Fairchild a Hong Kong) avevano messo la mordacchia al lavoro organizzato come soggetto antagonista del comando padronale; la relativa denuncia del cosiddetto “patto keynesiano” fondativo della stagione di Welfare State. Il ritorno sulla scena del mito pernicioso del “mercato autoregolantesi”.
Una mutazione genetica programmata e concordata a livello di élite del potere, consolidata negli anni della presidenza Clinton. Come ci confermano osservatori di estrazione diversissima: se un outsider quale Giulietto Chiesa racconta dell’ex governatore dell’Arkansas convocato in un ristorante di Manhattan non lontano dalle Twin Towers da un gruppo di banchieri, per promettergli il loro appoggio nelle imminenti elezioni presidenziali USA se si fosse impegnato a promuovere il free capital flow, ossia la finanza senza frontiere (e lo sventurato rispose[3]), il ben più istituzionale Manuel Castells spiega che «l’amministrazione Clinton fu il vero agente di globalizzazione politica, soprattutto sotto la guida di Robert Rubin, ex presidente di Goldman & Sachs e uomo di Wall Street»[4].
Lavorii inconfessabili nelle officine dai vetri oscurati del potere, che sfuggono allo sguardo dell’intellettuale benpensante. Nell’itinerario che conduce alla cooptazione nel country club della bella gente. Un po’ quello che era successo al mentore di Zielonka, il Ralf Dahrendorf che nel tempo è finito per assomigliare sempre di più a quell’Erasmo da Rotterdam che lui stesso descriveva «uomo dalle domande intelligenti e perfino sfrontate ma dalle risposte convenzionali, a volte quasi timide»[5].
L’orda barbarica e i liberali della cattedra
Sicché l’aspirante erasmiano Zielonka, da bravo “liberale della cattedra”, riprende acriticamente la favola “rivoluzionaria” bella e triste, ma anche priva di attinenza con la realtà, di questa Europa liberata/liberale che si è smarrita finendo nelle fauci di barbari contro-rivoluzionari in sella a uno Tsunami antiliberale. Che però – a differenza del mood corrente – non definisce “populisti” in quanto «questo termine è fuorviante e non coglie quello che è il loro obiettivo chiave, cioè abolire l’ordine post-1989 e sostituire le élites che lo hanno generato» (JZ pag. 14).
Ne salta fuori un’operazione saggistica sul lugubre sepolcrale, in forma di lettera aperta al “caro Ralf”, il suo mentore ormai defunto, di cui si parafrasa la lettera aperta alla Edmund Burke – “Riflessioni sulla rivoluzione in Europa” – scritta in presa diretta nel 1989 e indirizzata a un fantomatico amico polacco; tale “Sig. J”[10].
E che si tratti di una narrazione favolosa ci sono a dimostrarlo cronologia e cronaca.
Punto primo: l’Unione europea è mai stata il regno del Liberalismo? Semmai il trend prevalente è sempre stato quello tecnocratico. Come ricostruito dallo storico Tony Judt: «Monnet ed eredi avevano deliberatamente evitato ogni tentativo d’immaginare, e ancora più costruire, un sistema democratico o federale. Avevano invece promosso un progetto di modernizzazione realizzato dall’alto: una strategia per la produttività, l’efficienza e la crescita economica concepita secondo i principi di Saint-Simon, gestita da esperti e da funzionari, con ben poca attenzione per i desideri dei beneficiari»[11]. Comunque, tenendo sempre presente l’appello di Jacques Delors, presidente della Commissione Europea tra il 1985 il 1995, di «salvaguardare lo spirito del modello sociale europeo»[12]. Retorica che ha conferito all’Unione un’aura di mitezza, potenziata da tratti tipicamente europei «come la mentalità illuministica, talune istanze del mondo cristiano-cattolico e del paradigma democratico»[13]: ragionevolezza, sussidiarietà, inclusione.
Sicché – come scriveva Maurizio Ferrera un lustro fa – «durante gli anni Duemila l’Ue è diventata un’arena fra le più importanti e ospitali, nonché un vero e proprio attore decisionale per la nuova prospettiva (e agenda) di modernizzazione dello stato sociale. Alcune nozioni programmatiche centrali (come quelle di ‘ricalibratura’, ‘investimento sociale’, ‘inclusione attiva’, ‘qualità sociale’ e così via) vennero elaborate a (e in parte da) ‘Bruxelles’, servendo come punti di riferimento per la Strategia di Lisbona e, a fine decennio, l’agenda ‘Europa 2020’»[14].
Poi il crollo dell’intera impalcatura, che si può far risalire al 2009, quando raggiunsero le coste del Vecchio Continente le ondate sollevate dal crollo della finanza USA, culminate nel fallimento della Lehman Brother.
Punto secondo: è mai esistita un’età liberale? Se mai c’è stata, questa non è certo fiorita nell’ultimo quarto del XX secolo. La stagione dominata dall’assiomatica dell’interesse avido. Quando è iniziata la liquidazione della democrazia, in base alle indicazioni di un celebre documento della Trilateral risalente al 1976, nel graduale passaggio prima alla Post-democrazia e poi alla Democratura (il camuffamento autoritario nel guscio vuoto di apparente democraticità); in cui «si dà per scontato che non c’è più bisogno di nessuna delle motivazioni che nel passato non solo tenevano insieme le società umane, ma facevano anche funzionare l’economia»[15].
Punto terzo: è nato prima il disamoramento per il post-89 o i presunti barbari strumentalizzatori? Tutto ruota attorno alla data clou del 2011 (le precedenti insorgenze anti globalizzazione dei G-8, da Seattle a Genova, erano ancora circoscritte a un ribellismo puramente distruttivo), quando le piazze di 950 città in 80 paesi diventarono gli acquartieramenti di folle indignate e il New York Times scrisse che «è stato il ritorno sulla scena della seconda superpotenza mondiale: la mobilitazione della società civile su scala planetaria». Lo slogan “siamo il 99%”, in attesa di attori politici che lo intercettassero, nato dalla presa d’atto dell’immenso esproprio di vita, non solo ricchezza e democrazia, che i Masters of Univers di Wall Street e dintorni avevano consumato a spesa del popolo sino ad allora; e che le crisi finanziarie a partire dal 2008 avevano portato in piena luce.
Punto quarto: quello del contro-rivoluzionario è un paradigma unificante e unitario? Ossia, c’è un qualche tratto di affinità tra Donald Trump e Pablo Iglesias di Podemos, che pure Zielonka vorrebbe pigiare in un comune contenitore politico? Forse bisognerebbe informarlo che la cosiddetta AltraPolitica (ormai circoscritta alla penisola iberica e all’America Latina. Con la possibile interlocuzione con i Verdi rinascenti) propugna il ritorno a una democrazia presa sul serio e oltrepassa i confini sempre più asfittici dello Stato-nazione, mentre i demagoghi di destra, promuovendo il mito dell’uomo forte, perseguono l’istaurazione di regimi autoritari sovranisti.
D’altro canto, se – come ci viene giustamente detto – il comune alimento argomentativo dei controrivoluzionari è la dilagante percezione di minaccia incombente inoculata nella mente delle moltitudini, siamo in presenza di declinazioni inconciliabili: a sinistra insicurezza da security (la reale precarizzazione di massa imposta dal nuovo modo di produrre e consumare); a destra da safety (il rischio psicologico per la propria incolumità, alimentato dallo scambio libertà-protezione con cui la Destra mondiale – da Reagan a Bush jr. – ha perseguito il distacco del consenso popolare nei confronti del combinato welfariano servizi pubblici/prelievo fiscale).
È lo stesso Zielonka a incartarsi in fatti e date ammettendo che «i nuovi arrivati hanno sollevato una gran quantità di valide critiche all’establishment liberale. Sotto il dominio liberale le disuguaglianze si sono allargate, a volte in misura scandalosa, la democrazia ha assunto connotati oligarchici e la diplomazia internazionale si è rivelata altamente manipolativa» (JZ pag. X). Sicché «l’eredità della rivoluzione del 1989 è così un generale disordine che genera insicurezza» (JZ pag. 100).
Anatomia del liberalismo
La confusione concettuale testé segnalata conferma per l’ennesima volta l’uso invalso di utilizzare il termine “liberale” come mascheramento ideologico per ogni conservatorismo più o meno bieco; la pelle di zigrino in cui avvolgere qualsivoglia progetto reazionario. Il Liberalismo svilito a sinonimo del ponziopilatismo e del né-carne-né-pesce moderato Legge e Ordine, sempre dalla parte del potere; seppure con prudenza e riservatezza. La furberia della medietà “responsabile”, che evita conflitti spiacevoli, mentre assicura carriere e lusinghieri inviti a Palazzo. Taluno lo ha definito “liberaloide”; ignobile caricatura diventata luogo comune. Ma anche spudorata denigrazione di una tradizione combattiva e demistificante. Spesso ribelle. Ossia l’essenza di tale tradizione in quanto “critica dei rapporti di dominio”.
Il motivo per cui si impone urgentemente il ripasso dei capisaldi di una filiera che risulta unitaria soltanto sotto il profilo metodologico; accomunata dall’atteggiamento antagonistico davanti alle sfide conculcatrici del Potere nel proprio tempo, dei propri tempi. Come evidenziato da Guido De Ruggiero: «il dissent è la spina dorsale del Liberalismo»[16]. Poi confermato – tra gli altri – da Stephen Holmes, osservando che, pur nelle incontestabili differenze che dividono i teorici definibili “liberali”, «tutti hanno creduto che la società possa essere tenuta insieme anche in assenza del timor di Dio […] hanno affermato il principio morale dell’uguaglianza davanti alla legge […] hanno sostenuto – in spregio alla dottrina tradizionale – che le divergenze politiche rappresentavano una risorsa creativa»[17].
Ed è proprio a Holmes che dobbiamo una messa in luce convincente dell’ubi consistam liberale; partendo da Thomas Hobbes, prefigurato acrobaticamente come proto-liberale. Se occorre un Leviatano per tenere a bada la ferinità umana, chi terrà a bada il Leviatano stesso? «Anche i governanti devono essere governati. La democrazia liberale tende a collocare i responsabili delle decisioni più importanti in posizioni facilmente ispezionabili» (SH pag.8). La questione dell’ispezionabilità del Potere come controllo e contrappeso, che dovrebbe segnalare agli odierni liberali il conflitto civile in atto: la guerra non dichiarata degli abbienti contro il popolo. Quanto si sgola a dirci David Harvey: «è possibile interpretare la neoliberalizzazione come un progetto utopico finalizzato alla riorganizzazione del capitalismo internazionale, oppure un progetto politico per ripristinare il potere delle élite economiche»[18]. Progetto che già lascia sul terreno principi di democrazia e vasti strati di umanità. Mentre i liberali della cattedra si distraggono contemplando le lucciole.
NOTE
[2] W. Beveridge, Perché e come sono liberale, Rizzoli, Milano 1947 pag. 22
[3] G. Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli, Milano 2002 pag. 21
[4] M. Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2002 pag. 151
[5] R. Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, Laterza, Roma/Bari 1988 pag. 33
[6] R. Dahrendorf, Uscire dall’utopia, il Mulino, Bologna 1971 pag. 237
[7] R. Dahrendorf, Intervista sul liberalismo e l’Europa, Laterza, Roma/Bari 1979 pag. 163
[8] R. Dahrendorf, Dopo la democrazia, Laterza, Roma/Bari 2001 pag. 10
[9] R. Dahrendorf, La società riaperta, Laterza, Roma/Bari 2005 pag. 212
[10] R. Dahrendorf, 1989. Riflessioni sulla rivoluzione, Laterza, Roma/Bari 1990
[11] T. Judt, Postwar. Laterza, Roma/Bari 2017 pag. 899
[12] J. Delors, Crescita, competizione, occupazione, il Saggiatore, Milano 1994 pag. 107
[13] R. Simone, “La grande migrazione intercontinentale”, MicroMega 8/2016
[14] M. Ferrera, “Neowelfarismo liberale”, Stato e Mercato aprile 2013
[15] E. J. Hobsbawm, Intervista sul nuovo secolo, Laterza, Roma/Bari 1999 pag. 114
[16] G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano 1971 pag. 113
[17] S. Holmes, Anatomia dell’antiliberalismo, Edizioni di Comunità, Milano 1995 pag. 270
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