Il M5S può ancora sopravvivere come protagonista?

Paolo Flores d’Arcais

Il M5S è finito. Comunque si muova, continuerà nel suo precipitare, iniziato da quando non è più una forza anti-establishment ma lo stuoino di Salvini. Di Maio pensa di rimediare con una Grande Riorganizzazione che aggira però le questioni cruciali: la contrapposizione destra/sinistra, le modalità di selezione dei quadri dirigenti e la democrazia interna.

Da parecchi giorni i democratici più sinceri si stanno prodigando in consigli al M5S su come invertire la rotta che in un anno ha portato sei milioni di italiani (sei milioni!, un salasso permanente, praticamente un elettore ogni cinque secondi) a ritirare il consenso appena dato, e rivolgersi alla Lega oppure disertare le urne. Attenzione sacrosanta, poiché solo il M5S sembra ancora costituire un freno al dilagare del pre-fascismo di Salvini. Prodigarsi che trascura però il più pesante e palese dato di realtà: il M5S è finito. Purtroppo. Questo purtroppo è da sottolineare, perché al momento altri argini al pre-fascismo di Salvini e dei suoi molti alleati nei “poteri forti” non si vedono proprio.

Il risultato delle europee per il M5S non è una rotta. Perché a Caporetto può seguire il Piave, e poi la vittoria (ormai le metafore militari stanno scalzando quelle calcistiche, il degrado del linguaggio continua). Quello che sta vivendo il M5S è invece l’avvitamento, che in aeronautica indica quando il precipitare di un aereo raggiunge il punto di non ritorno, e nessuna manovra e nessun miracolo potrà più salvare il veicolo. Qualsiasi linea scelgano infatti Di Maio e/o Casaleggio jr., il M5S continuerà nel suo precipitare.

Se rompe con Salvini e si va a elezioni anticipate l’emorragia di consensi continuerà. Se rompe con Salvini e si forma una coalizione di centro destra con tanti “responsabili” transfughi dal M5S che non vogliono perdere il seggio, la catastrofe sarà ancora più rapida. Se rompe con Salvini e nasce un “governo del Presidente” per fare una finanziaria con il solito “lacrime e sangue” (che tradotto vuol dire, paga chi ha meno, s’impingua chi ha di più), dimostrerà la sua impotenza e irresponsabilità (se va all’opposizione) o la sua impotenza e acquiescenza verso i poteri forti (se vota il governo). Se non rompe con Salvini ma continua a governarci insieme, dovrà inchinarsi a una dieta di rospi quotidiani che delle promesse elettorali faranno strame fino in fondo.

Comunque si muova, il M5S è nella condizione del dilemma siberiano: “Qualora il ghiaccio si rompa e tu cada nell’acqua ghiacciata, se in quattro minuti non ti tirano fuori sei morto, ma se ti tirano fuori, nell’aria ghiacciata, sei morto comunque in due minuti”. Il 24 aprile 2018, prima che nascesse il governo Salvini (Conte), scrivevamo: “In Siberia il M5S di Di Maio ci si è messo da solo”.

L’avvitamento è iniziato allora, quando il M5S ha scelto di andare al governo con un partito che aveva programmi, passato, radici, valori, opposti ai propri. E ha finto che si potesse stabilire invece un programma comune. Il famoso “contratto”, che Salvini ha considerato carta straccia da subito, facendo del governo Conte il suo governo, dell’odio per il migrante lo specchietto per le allodole, dell’odio per i magistrati e dell’amore per i padroni del cemento e degli appalti la stella polare della continuità con Berlusconi, e della spartizione in Rai e in ogni carica dove il governo ha voce l’unico terreno effettivo di accordo tra i due partiti. In un sabba di oscenità (tranne rarissime nomine di meritevoli).

Salvini è ormai l’uomo di Confindustria e di tutti i poteri che non vogliono il controllo di legalità come orizzonte ineludibile di una democrazia. A questa quintessenza del berlusconismo aggiunge il “libera tutti!” rispetto agli spurghi psichici indotti dalla paura in tanta parte dell’elettorato. La politica della paura ha infatti lo scopo di spostare il bersaglio della sacrosanta rabbia popolare dall’establishment al capro espiatorio.

Il M5S ha fatto lo stuoino di Salvini, puntando tutto sul salario di cittadinanza, che ha dovuto però rimpicciolire ed edulcorare fino a farne poco più di una elargizione di emergenza per alcune delle fasce più deboli (sempre meglio che niente, sia chiaro). E ha invece rinunciata a fare le battaglie qualificanti sbandierate nella campagna elettorale e unificate nel ritmato “onestà, onestà!”.

Che in effetti sarebbe – eccome! – un programma di governo, implicando guerra senza quartiere alle mafie, al loro brodo di coltura, grande evasione, riciclaggio, segreto bancario, corruzione, e poi fine di ogni lottizzazione in Rai e in ogni funzione pubblica, rigorosa politica ecologica, valorizzazione (l’opposto della mercificazione!) dei beni culturali, e via articolando. E invece ingoieranno anche la Tav, la seconda per inutilità delle grandi opere (la prima è il ponte sullo stretto di Messina, la cui società ancora non è stata azzerata). E hanno ingoiato il go-go di condoni, liberi subappalti e ogni altra nefandezza di berlusconiana origine e memoria.

Ovvio che polemizzare con Salvini nelle ultime settimane di campagna elettorale è servito solo ad accrescere il discredito: nessuno ti prende sul serio con l’antifascismo in zona Cesarini, o con quattro ciance sull’eguaglianza, mentre continui ad accettare che si discuta di flat tax, cioè del più gigantesco regalo che si possa fare ai ceti abbienti (la Costituzione, non a caso, esige una fiscalità progressiva, per trasferire danaro dai più ricchi ai meno fortunati).

Ora Di Maio, insieme al suo “fratello” Di Battista (evitiamo blague sui fratelli coltelli), pensa di rimediare con una Grande Riorganizzazione. Che aggira le due questioni cruciali.

La prima: la contrapposizione destra/sinistra è superata. E’ vero il contrario. Vale infatti solo se per destra e sinistra si intendono i partiti che tradizionalmente si sono dichiarati o si dichiarano tali (spesso con il pudibondo prefisso di centro-…). In chiave di valori e interessi, invece, l’opposizione è sempre più significativa e anzi spinge alla polarizzazione. Salvini ha così trasformato una Lega settentrionale in un partito iper-lepenista su scala nazionale, inverando il berlusconismo in salsa razzista e di finto anti-establishment (la volgarità o l’odio per le élite quale calderone indistinto sono l’opposto della lotta contro l’establishment, cioè il privilegio dei veri ricchi-e-potenti e la sua hybris). Insomma, incarna nel modo più (pre)potente la destra, unificata sotto l’egemonia più estrema.

Il M5S ha un futuro solo se sapesse incarnare l’alternativa a questo potere dei poteri forti occultato dai modi plebei e dal furore contro i capri espiatori. Cioè i valori e gli interessi di sinistra, perché contro i privilegi d’establishment. I valori giustizia-e-libertà intransigenti e praticati coerentemente. Ma il M5S non è nato con questa cultura, e se ne ha assunto qualche spezzone (anche qui: meglio che niente), lo ha fatto in un quadro ideologico di penoso ciarpame antiscientifico, complottismo puerile, con annesso anti intellettualismo e ibridazione con ogni opportunismo democristiano o sbandamenti da vera destra.

La seconda questione cruciale è intrecciata alla prima, in una debilitante sinergia al peggio: le modalità della selezione dei quadri dirigenti e la democrazia interna. Una forza anti-establishment, cioè giustizia-e-libertà, dovrebbe selezionare i suoi quadri e dirigenti attraverso la partecipazione alle lotte, il contributo di impegno pratico e culturale, la credibilità e coerenza dei propri tragitti in questi ambiti. I meet-up potevano essere l’embrione delle istanze di base di un tale progetto. Le &ld
quo;parlamentarie” sono invece delle specie di provini per mini-reality o uomini/donne stile De Filippi (che rispetto alle “parlamentarie” è cinema da oscar), o spot per aspiranti influencer, in cui con qualche decina di like, cioè di amici facebook, si diventa candidati (bloccati) per essere eletti sindaco o parlamentare. Un terno al lotto, una cuccagna, che con la caratura dell’impegno politico non hanno parentela alcuna. Naturalmente viene fuori anche qualcuno (rara avis, comunque) di valore. Ma accadrebbe anche estraendo i candidati a sorte.

Quanto alla democrazia interna, l’impermeabilità alle critiche, e anzi il riflesso pavloviano per cui chi non si allinea perinde ac cadaver è un nemico o un traditore, hanno fatto il resto. Un deserto di elaborazione e confronto collettivo.

I risultati si sono visti, e hanno mortificato, avvilito e infine distrutto, alcune intuizioni sacrosante che hanno fatto la fortuna del movimento: il rifiuto della partitocrazia e della politica come mestiere, per trasformarla invece in alcuni anni, non ripetibili, di “servizio civile costituzionale” nelle istituzioni. Con il loro fallimento i 5S gettano il discredito su misure antipartitocratiche che invece restano più che mai attuali.

L’avvitamento del M5S potrà durare più o meno a lungo (fino a che non nascerà un’alternativa possibile, e continuerà a ingrossarsi il partito del non voto). La possibilità che sia un protagonista della vita politica e soprattutto della sua urgentissima ri-democratizzazione è invece definitivamente tramontata. A meno di credere ai miracoli, stile apertura del mar Rosso. Non è il nostro caso di atei incalliti. E soprattutto non c’è nessun Mosè alle viste.

(in un prossimo articolo le colpe della società civile, ovvero le nostre responsabilità).

(7 giugno 2019)







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