Il maiale e il grattacielo, 25 anni dopo

Marco d’Eramo

Il capitalismo sconvolge e rivoluziona tutto, tranne le regole del suo funzionamento e i meccanismi che questo induce. Già 25 anni fa la storia di Chicago si presentava come un’archeologia del capitale, “in quanto scavo nei vari strati delle macerie che esso ha lasciato, degli eserciti umani che ha spostato e mandato allo sbaraglio”. Pubblichiamo la postfazione alla nuova edizione del saggio “Il maiale e il grattacielo” di Marco D’Eramo, in questi giorni in libreria per Feltrinelli.
 

Siamo a una sessantina di km a ovest del lago Michigan, dove i suburbi di Chicago si estendono sempre più intervallati e i pendolari si svegliano sempre più presto per andare a lavorare a downtown. Aurora è un comune di 200.000 abitanti, riproduzione frattale, in piccolo, della città di cui è suburbio: fondata nel 1845, pochi anni dopo Chicago, come la sua città madre divenne florida per le ferrovie, visto che qui nel 1856 la Chicago Burlington and Quincy Railroad aprì uno dei suoi stabilimenti più grandi e fu fino agli anni ’60 del secolo scorso il suo più importante datore di lavoro, prima di chiudere definitivamente all’inizio degli anni ‘70. Come Chicago, Aurora ospita opere architettoniche di valore (edifici di Frank Lloyd e di Mies van der Rohe, tra gli altri).

Aurora è inconfondibilmente midwestern già per il nome: qui nelle grandi piane, i comuni portano nomi che rivelano l’intensità, la speranza, il coinvolgimento che, nel costruirli, ci aveva messo chi li aveva fondati: Aurora appunto, ma anche Confidence, Mystic, Promise City, Bethelem, Chariton, Gravity, Hopeville (Borgosperanza: ancora una volta incrociamo quella potenza del nominare in cui tanto spesso ci siamo imbattuti in questo libro). Ma Aurora oggi non ha niente di biblico (né di nietzscheano, se è per questo), anche se all’inizio del ‘900 si fregiò dell’epiteto di “Città delle Luci” (City of Lights), non si sa quanto ironica parodia della Ville Lumière (Parigi), perché era stata una delle prime cittadine del Midwest a rischiarare le sue notti con l’illuminazione elettrica.

La ragione per cui ci troviamo qui è un enorme edificio basso che si estende su più di quattro ettari nella periferia est di Aurora, in mezzo ai campi, in un paesaggio prosaico. Qui, a una temperatura mantenuta costante, accuditi da inservienti che si spostano in pattini a rotelle da una macchina all’altra, enormi computers processano e immagazzinano miliardi di transazioni finanziarie, consumando quantità stratosferiche di energia elettrica, fornita da due apposite centrali.[1] Perché qui è ospitato il Centro Dati del Chicago Mercantile Exchange (Cme), la più grande borsa di derivati al mondo. Anzi, in tutti i sensi operativi, questo enorme capannone è diventato la borsa di Chicago: perché è in questi computer, e non solo per mezzo di essi, che materialmente avvengono in decimillesimi di secondo tutti gli scambi (acquisti e vendite) di titoli e di derivati, di futures su valute e mercanzie, su tassi d’interesse e assicurazioni, di equities, di swaps e di options, questi arcani termini teologici con cui i sacerdoti del capitale celebrano le loro liturgie. Perché la sede tradizionale del Cme, nel centro di Chicago, su Wacker Drive, dove si trovava la grande fossa delle transazioni, ha chiuso i battenti nel 2016. Proprio come ormai la borsa di Wall Street non è più a New York, ma in una serie di hangar a Mahwah nel New Jersey (dimostrando quanto fosse obsoleta l’idea di poter “Occupy Wall Street”).

Nulla esprime con maggiore chiarezza l’abisso che ci separa dal 1995 (quando apparve la prima edizione di questo libro) quanto il trasloco del Cme. Basta paragonare il sommesso ronfare dei computers di oggi con la fossa (pit in inglese e corbeille in francese) come mi si presentò allora: “Dall’osservatorio che si affaccia a balconata sopra la sala delle transazioni, vedi un antro di 3.600 mq con dentro 4.000 persone che si agitano gridando: i volti si contraggono esaltati in adorazione delle cifre luminose che appaiono sui muri; le mani si muovono frenetiche; le dita parlano rapidissime in un linguaggio da sordomuti; le teste oscillano come a pregare le azioni. A non sapere nulla, assisti a un mistero antico, a una festa in un monastero tibetano, a un’allucinazione delle percezioni, quasi a un’estasi. Neanche da Wall Street si sprigiona questa religiosità aliena. L’esausta, febbrile trance ipnotica dei commessi (floor traders) ricorda i cerimoniali studiati dagli antropologi. E proprio come un antropologo, ti rendi conto di star guardando riti destinati a sparire. ‘che ci scompaiono proprio sotto i nostri occhi’ (Bronislaw Malinowski)” (vedi supra, p. 55).

La previsione si è realizzata molto prima di quanto chiunque potesse immaginare. A pensare che ancora nel 2000 il Cme si sentiva obbligato a imporre tacchi non più alti di 5 centimetri nella sala transazioni[2] perché i commessi avevano cominciato a portare tacchi sempre più alti per poter farsi vedere prima, quando nella calca alzavano le mani per lanciare un’offerta di acquisto o di vendita! E ora, solo 20 anni dopo, il bailamme frenetico e quasi delirante delle transazioni umane è sostituito dal ronron di computer accuditi da inservienti in pattini a rotelle! Ai porti di mare c’erano voluti secoli per passare dalla poliglotta, babelica confusione dei moli per velieri allo sterminato silenzio deserto dei terminal per portacontainer. Alle borse valori e al capitalismo finanziario è bastato un ventennio.

* * *

Il passaggio da una borsa valori umana, bipede, funzionante con gesti e suoni, ancora animale in un certo senso, a una borsa valori silenziosa, cibernetica, elettronica, automatica, insomma la fulminea transizione dalle grida agli algoritmi è l’espressione fisica di quell’accelerazione del tempo che secondo il filosofo Reinhart Koselleck è la caratteristica saliente del moderno. La velocità con cui il nostro mondo cambia è sempre maggiore, ma il sentimento, la percezione dell’accelerazione rimane costante. Già all’inizio dell’800 i romantici tedeschi potevano dire che negli ultimi venti anni il mondo era cambiato più che nei due secoli precedenti (sfido io! in quei 20 anni c’era stata la rivoluzione francese ed era cominciata la rivoluzione industriale). E nel 1886 l’ingegnere elettrico e imprenditore Werner von Siemens diceva: “periodi di sviluppo che in tempi passati hanno avuto luogo nel corso di secoli, e che all’inizio della nostra epoca hanno richiesto ancora dei decenni, si compiono oggi in anni…”[3]

L’accelerazione del tempo rende irriconoscibili i paesaggi. Cabrini-Green, il complesso di edilizia popolare più malfamato (e uno dei più segregati) del centro di Chicago è stato raso al suolo nel 2011 e sono stati demoliti i suoi palazzoni, con i ballatoi esterni, chiusi da una rete di ferro con le finestre divelte e le facciate striate dagli incendi (cfr. supra il capitolo “Cabrini-Green, dove c’era il paradiso” pp. 312-323), ormai rimpiazzati da casette a schiera: ma prima a Cabrini-Green vivevano fino a 15.000 persone in 3.600 appartamenti, ora le casette a schiera sono solo 586 e di esse solo 150 occupate: effetti collaterali dei risanamenti urbani!

Lo stesso destino è toccato alle Taylor Homes, altro infame high rise project, questa volta proprio accanto all’idilliaca enclave dell’University of Chicago, per cui i “Chicago boys” della scuola economica, profeti e missionari del capitalismo puro e duro, non osavano uscire a piedi dalla loro oasi. È in via di completamento la sostituzione dei 28 palazzoni da 16 piani per 4.415 appartamenti demoliti nel 2007 con 2.300 unità in edifici a uno o due piani, chiamati sempre, con il gusto yankee per l’iperbole, “Legends South”.

Non solo distruzioni. Nel centro della città, proprio sul Chicago River vicino al Magnificent Mile si staglia ora la Trump Tower, terminata nel 2009, che svetta fino a 356 metri (antenna esclusa) in uno stile neo-futuristico che sempre più fa somigliare i grattacieli a cioccolatini incartati nella stagnola, in un processo che era già implicito nella rivoluzione che permise a Chicago d’inventare i grattacieli (vedi supra “Una raschiatina al cielo”, pp. 64-69), e cioè la trasformazione degli edifici da esoscheletri (come tra gli animali sono lumache, tartarughe o gamberi), edifici sorretti dai muri portanti esterni (“muri maestri”), in endoscheletri (come i vertebrati), dove la funzione portante è invece assolta dalla struttura interna in acciaio. Ma inevitabilmente questa evoluzione porta a trasformare l’architettura in una forma di sartoria, dove l’architetto si limita a essere un couturier che abbiglia l’edificio all’esterno, provvedendolo di sbuffi e décolletés.

Se applicata alle città, in questo caso a Chicago, l’accelerazione del tempo fa sì che non si possa parlare di una città in un luogo, in un dove, ma la si debba sempre pensare in uno spaziotempo, in un dove-quando: di modo che non c’è solo un altrove, ma c’è anche un altroquando. La città diventa un “cronotopo”, per usare il termine coniato da Michail Bachtin a proposito della letteratura: nel cronotopo “ha luogo la fusione di connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza. … I connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura. Questo intersecarsi di piani e questa fusione di connotati caratterizza il cronotopo”.[4] Qui si può parlare di “cronocittà”.

Walter Benjamin poteva descrivere Parigi e i suoi Passages presumendo che fra qualche decennio sarebbero stati ancora lì, come erano già lì qualche decennio prima. Ma ora devi precisare sempre di quale città stai parlando, in quale momento. Se descrivessi la Calcutta degli anni ’80 oggi nessuno la riconoscerebbe. Quell’immagine da cartolina disperata – e leziosa – data da Città della gioia (Dominique Lapierre, 1985) è incompatibile con un viaggio nella pulitissima metropolitana della Calcutta di oggi.

D’altronde tutto il volume che hai dietro di te è organizzato secondo il principio del cronotopo, della città dove-quando in cui “i connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura”. Abbiamo visto il “cronotopo Chicago” mutare dal piccolo agglomerato del 1840 alla città lignea in preda al furibondo incendio del 1871, alla metropoli industriale dei mattatoi e delle ferrovie eretta dagli immigrati etnici europei fino al 1910, alla fucina plasmata dalla grande immigrazione nera dal sud durante e dopo la prima guerra mondiale, al grande centro prevalentemente finanziario del secondo dopoguerra.

* * *

Ti chiederai allora perché vale la pena di ripubblicare questo testo, se riguarda una città ormai svanita. Un po’ per la stessa ragione che scrivevo nel Postscriptum che hai letto appena prima di queste pagine: perché già 25 anni fa la storia di Chicago si presentava come un’archeologia, un’archeologia del capitale, “in quanto scavo nei vari strati delle macerie che esso ha lasciato, degli eserciti umani che ha spostato e mandato allo sbaraglio”: già 25 anni fa potevo dire che “di questa storia così breve, e così gonfia, sono state spazzate via perfino le effigi”, che “è già scomparso quel che appena ieri aveva creato e fatto grande Chicago. E la città che oggi vediamo è destinata a svaporare. Quel che non cambia è il processo del dissolvimento, è il vivere del proprio morire, è l’autofagia come tecnica di crescita”. È la ragione per cui, a differenza di precedenti riedizioni, questa volta ho deciso di non aggiornare né il testo né le statistiche, un po’ perché interi capitoli avrebbero dovuto essere riscritti (e invece mi pare ancora utile rivisitare oggi Cabrini-Green anche se è stata demolita), e un po’ perché le nuove cifre e le nuove statistiche non alterano il ritratto di fondo.

Infatti, una ragione a mio avviso più seria per ripubblicare questo testo è che sotto certi aspetti il capitalismo nella sua forma più pura, più libera da vincoli, quale si è espresso e realizzato a Chicago, si comporta paradossalmente come l’aristocrazia siciliana descritta da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, pronta “a cambiare tutto per non cambiare niente”. Come dire che il capitalismo sconvolge e rivoluziona tutto, tranne le regole del suo funzionamento e i meccanismi che questo induce.

Tutto è cambiato a Chicago, ma la struttura sociale, “i fondamentali” della città sono rimasti gli stessi. I singoli quartieri possono in un periodo essere chic e poi nei decenni successivi diventare slum abbandonati e poi tornare chic, ma quel che non cambia è la regola e il ritmo del pendolo slum-gentrification- slum- rigentrification: in un’area uno speculatore immobiliare costruisce un complesso di unità familiari per una clientela agiata e bianca in villette unifamiliari o condomini di lusso. Poi, a poco a poco, comincia a vendere a sovraprezzo qualcuna di queste unità ad acquirenti non “caucasici” (ispanici, afroamericani…) pronti a pagare un premio, rispetto ai corsi di mercato, per vivere in un’area bianca. Ma man mano che i “non caucasici” aumentano, l’area si deprezza e i “caucasici” cominciano ad andarsene, e allora la manutenzione viene trascurata, villette e condomini si degradano, le unità diventano meno pregiate, e restano appetibili solo per una clientela meno agiata. S’innesca una spirale di deterioramento che si conclude solo quando il quartiere è diventato uno slum. Quando il quartiere è completamente degradato, lo speculatore è pronto a ricomprarlo a prezzi stracciati per rigentrificarlo di nuovo e venderlo di nuovo a una clientela ricca, e il ciclo riparte.

Perché, come hai già visto tante altre volte nella storia che ti ho raccontato, il razzismo ha un valore di mercato e questo valore di mercato alimenta il razzismo. Così per un periodo il centro città, l’inner city, diventa uno slum, un ghetto nero, poi a poco a poco emarginati, disperati, neri, latinos vengono espulsi, il centro si rigentrifica (come è avvenuto per tutti gli anni ’90 e nel primo decennio di questo secolo). Come mi diceva Philippe Bourgeois (che abbiamo già incontrato per il suo bello studio su una casa di crack nel barrio portoricano di New York): “se adesso vuoi trovare gli strafatti homeless, non li devi cercare a Mission a San Francisco o ad Harlem a New York, ma nel Wyoming, nei paesetti del Dakota e del Kansas, in piena campagna”.

Ma non è solo la struttura urbana a funzionare secondo le costanti imposte dalla logica della rendita. Ero a Chicago, a Grant Park, la sera del 4 novembre 2008, il giorno in cui il chicagoan Barack Obama fu eletto. Grant Park, dove nel 1968 gli studenti erano stati massacrati di botte durante la Convention democratica. Lì, quella sera del 2008 sembrava che una nuova grande speranza potesse riscattare quella città di ghetti, il fantasma dello schiavismo, l’eredità delle discriminazioni, il retaggio delle insurrezioni soffocate, delle Pantere nere sterminate.

Non fu così, non perché Obama non fosse all’altezza: magari non lo era, ma il punto era un altro; non perché le attese e le speranze fossero esagerate, certamente lo erano[5], ma non furono disattese solo per una pur reale codardia. Ma perché la lunga durata, come la chiamava Fernand Braudel, non fa sconti. Non è perché Benazir Bhutto è stata per cinque anni primo ministro del Pakistan che in quel paese è cambiato il rapporto tra uomini e donne e che è stata spazzata via una millenaria tirannia maschile.

Così l’elezione di Obama non ha alleviato la vita degli afroamericani statunitensi. In parte perché Obama è (solo un po’) nero (mamma di origine irlandese), ma non è un “vero” afroamericano: nessuno dei suoi antenati è mai stato schiavo negli Usa, ed è questo a costituire lo spartiacque nella società americana. Ma soprattutto perché, con un effetto boomerang, la sua elezione ha esacerbato il persistente razzismo latente, che prima veniva rimosso, taciuto e negato. Come per la struttura castale indiana, così per la struttura razziale statunitense: sia in India che negli Usa tutti ti ripetono – mentendoti e mentendosi senza neanche rendersene conto – “era un problema del passato, ma ora è risolto”.

La presidenza di Obama ha per così dire sdoganato il razzismo: se accusato, qualunque razzista poteva risponderti: “Ma che razzisti, abbiamo persino eletto un presidente nero!”; proprio come un maschio pakistano poteva risponderti “Abbiamo persino eletto una donna primo ministro”, subito dopo aver picchiato la propria moglie.

Tanto è vero che con la presidenza Obama le violenze della polizia nei confronti dei neri sono aumentate: a tutt’oggi la probabilità che negli Stati uniti uomini e ragazzi neri siano uccisi dalla polizia è due volte e mezza più alta che per gli uomini e i ragazzi bianchi.[6] Le uccisioni di neri da parte della polizia contano per circa un quarto (25%) del totale mentre i neri costituiscono solo il 12,% della popolazione Usa. C’è stata una recrudescenza di violenze razziste da parte dei civili. Senza questo rigurgito di razzismo l’elezione di Donald Trump resterebbe incomprensibile.

E se 25 anni fa potevo cominciare il capitolo sulla scuola di economia dei Chicago Boys ricordando il fulminante incipit di un editoriale pubblicato nel 1991 dal “Washington Post”: “La guerra fredda è finita e l’ha vinta l’Università di Chicago” (vedi supra p. 388), ora i Chicago Boys fanno ben altro: dominano il mondo piegandolo a tal punto che tutte le sinistre occidentali sono state convertite al verbo neoliberista, e che sì è totalmente realizzata la profezia/minaccia di Margaret Thatcher There is No Alternative (“Non c’è alternativa” al capitalismo finanziario), a tal punto che, come scriveva Mark Fisher, “È pi&ugra
ve; facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo”.[7]

Perciò, se il paesaggio architettonico si è modificato in questi decenni, invece il paesaggio umano di Chicago è rimasto notevolmente stabile e le tendenze socioeconomiche hanno proseguito imperterrite sulla traiettoria degli ultimi 180 anni, portandola fino alle sue estreme conseguenze.

È la traiettoria del capitalismo, di come è cresciuto, come si è realizzato, come ha imposto le sue regole in una città dove ha potuto esprimersi senza i vincoli esterni che lo limitavano e lo alteravano, senza lo statalismo di Parigi, senza l’aristocrazia fondiaria e coloniale di Londra. Qui abbiamo potuto vedere la sua azione nella sua forma più pura.

Franco Moretti dice che il genere narrativo per eccellenza adottato dalla borghesia occidentale è stato il “romanzo di formazione”. Ecco, per me Chicago è stato, ed è il personaggio narrativo che mi ha reso possibile raccontare il “romanzo di formazione del moderno”. Attraverso le peripezie, le avventure, le conquiste, le tragedie del personaggio Chicago è possibile leggere in filigrana la struttura del moderno.

I romanzi di formazione finiscono in genere quando i loro eroi diventano adulti, salutano la giovinezza (in senso biologico o in senso sociale). Anche questo romanzo di formazione si conclude perciò quando Chicago è diventata adulta: certo continuerà a vivere, ma “l’archeologia del futuro” che abbiamo raccontato è una storia conclusa.

Sono tante le città che sono sopravvissute alla propria epopea: oggi Alessandria d’Egitto ha 5,2 milioni di abitanti, più del triplo di quanto abbia mai avuto in periodo ellenistico: ma allora era il centro della cultura mondiale (di questa parte di mondo), oggi è un agglomerato come tanti altri; ad Atene continuiamo ad andarci per tutto quello che è avvenuto prima di essere stata conquistata da Alessandro il Macedone nel IV secolo a. C; nella storia del genere umano Roma è importante per quel che vi è avvenuto fino all’età barocca, non oltre; Parigi ha smesso definitivamente di essere il centro della cultura mondiale alla fine degli anni ’70 del secolo scorso ed è molto dubbio che mai possa ricoprire di nuovo questo ruolo.

* * *

Nella sua prosaica piattezza, Aurora è il posto giusto per salutare questo romanzo di formazione, perché qui giunge a compimento quel processo di smaterializzazione del capitale che era cominciato nel 1848 quando un gruppo di mercanti di buoi e granaglie si erano riuniti per costituire il Chicago Board of Trade, che sarebbe diventato l’antesignano di tutti i mercati di futures a venire. Lì, in una città di legno, tra impantanate strade di terra battuta percorse da mandrie e carriaggi, costoro decisero che avrebbero scambiato non più soldi contro mucche o contro sacchi di grano, ma soldi contro mucche ancora da nascere e sacchi di grano che ancora doveva germogliare. E lo facevano per premunirsi, gli acquirenti contro future carestie che avrebbero fatto schizzare i prezzi alle stelle, e i venditori contro futuri raccolti abbondanti che avrebbero deprezzato i corsi. Erano nati i futures. Non a caso per analizzarne la logica, ho dovuto fare ricorso alla filosofia medioevale, al tema degli universali, perché con i futures i mercanti del Chicago Board of Trade si scambiavano non più merci, ma concetti di merci.

È assolutamente improbabile che quei rudi pionieri midwestern potessero prevedere la pazzesca dinamica che quella loro iniziativa avrebbe innescato: avevano dato il via alla finanziarizzazione del mondo! Ben presto si ebbero futures di metalli, di legni, di tutte le materie prime, e poi futures sui cambi delle monete. Il valore del future è una scommessa sul corso che sarà attribuito a una certa cosa fra un certo tempo. E si può scommettere su tutto. Si può avere un future sui mutui e sui debiti, e poi sull’assicurazione che copre mutui o debiti. Ma perché non avere un future su questi futures? Ecco perché si chiamano derivati: proprio come in matematica esistono derivate prime, seconde, terze, così esistono derivati di ordine crescente: in realtà il paragone più calzante sono le potenze: futures, futures dei futures, cioè futures al quadrato, futures dei futures dei futures, e cioè futures al cubo). Cioè concetti, concetti di concetti, concetti di…


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Oggi nessuno che operi sui derivati si aspetta di vedersi consegnare a casa le materie prime di cui ha comprato i titoli futuri, tutto avviene a un livello di astrazione, di incorporeità, di delocalizzazione che è bene espresso dalla metafora che i fornitori hanno dato ai loro servizi di stockaggio dati: il capitalismo finanziario agisce come un cloud, come una nuvola da cui piovono dall’alto quelle valutazioni che determinano le nostre vite. Come gli dei greci agivano da cime nascoste dalle nuvole, così le agenzie di rating danno voti che decidono se ognuno di noi potrà godere di pensione, potrà farsi curare, potrà mandare i figli a scuola, potrà andare in vacanza.

Questo processo di smaterializzazione, di astrazione sempre crescente era cominciato a Chicago e si conclude oggi nell’automatismo degli algoritmi che governano l’high frequency trading. I primi mercanti della Windy city sarebbero rimasti di stucco a visitare il grande hangar di computers ad Aurora e a sapere che avevano messo in moto tutto questo.

Il bello della storia è che riserva sempre sorprese, e lo farà anche quando queste pagine saranno ingiallite: perché nessuno di noi vedrà mai la fine del film, di questo film straordinario che è la storia del nostro pianeta e di quei feroci, indomiti bipedi spellicciati che siamo noi umani.
NOTE

[1] I server di Aurora necessitano di 184 megawatt di elettricità, l’equivalente, secondo Alexandre Laumonier, del consumo quotidiano di 100.00 abitazioni domestiche: cfr. 6/5, Zones Sensibles, Bruxelles 2013, trad. it. Nero, Roma 2018, p. 134.

[2] Traders’ furious land war erupts outside CME’s data center, “Chicago Business”, 12 maggio 2017, https://www.chicagobusiness.com/article/20170512/NEWS01/170519929/traders-furious-land-war-erupts-outside-cme-s-data-center.

[3] Citato da Reinhart Koselleck in Accelerazione e secolarizzazione, Istituto Suor Orsola Benincasa, Edizioni Sciengifiche Italiane, Napoli 1989, p. 10.

[4] Michail Bachtin, Estetica e romanzo (1975), trad. it. Einaudi (1979), Torino 200, pp. 231-2. Il testo da cui è presa la citazione, “Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di poetica storica”, risale al 1937-8.

[5] Basti pensare al premio Nobel per la Pace che fu assegnato a Obama appena eletto, ancora prima che avesse avuto modo di compiere un singolo gesto di politica internazionale: un premio preventivo!

[6] Getting killed by police is a leading cause of death for young black men in America, “Los Angeles Times”, 16 agosto 2019.

[7] Mark Fisher, Capitalist Realism. Is There No Alternative?, O Books, Winchester (Uk), Washington (Usa), p. 1.
(24 giugno 2020)




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