Il Mezzogiorno oltre De Luca

Pierfranco Pellizzetti

«De’ due terribili malanni del Mezzogiorno, la grande povertà,
e, frutto di questa, la grande corruttela, i Borboni furono la
espressione, non la causa: essi trovarono, forse aggravarono,
non certo crearono il problema meridionale, che ha cause ben
più antiche e profonde»
Giustino Fortunato

«Il problema di Napoli non è soltanto economico, ma
sopra tutto morale: ed è l’ambiente morale che impedisce
qualsiasi trasformazione economica»
Francesco Saverio Nitti

 

Marco Esposito, Fake Sud, PIEMME, Milano 2020
Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, Se muore il Sud, Feltrinelli, Milano 2013
 
Eduardo o Peppino?

È possibile un appello alla “fierezza del Sud” diverso dalle modalità alla Vincenzo De Luca, pittoresco “governatore col lanciafiamme” della Campania?

Insomma, il vero volto del nostro Mezzogiorno è quello malinconico e disilluso di Eduardo De Filippo o quello ridanciano di suo fratello Peppino?

Si cimenta nella sfida il saggio scritto da Marco Esposito di cui qui si discute. Però in una modalità argomentativa molto lontana dall’amaro e severo rigore critico/auto-critico dei vecchi meridionalisti alla Fortunato, alla Gaetano Salvemini, alla Francesco De Sanctis o – più recentemente – i redattori della rivista “pannunziana” Nord e Sud, fondata e diretta da Francesco Compagna (tra gli altri, Nello Ajello, Pasquale Saraceno, Rosario Romeo). Quella linea argomentativa che Compagna esponeva inaugurando la prima annata del suo periodico; pubblicato a Napoli nel 1954: «Nord e Sud non stanno qui ad indicare i termini di un’astratta contrapposizione fra gli interessi delle regioni più sviluppate e le aspirazioni delle regioni più povere; ma piuttosto i termini elementari in cui si riassumono oggi tutti i problemi italiani come problemi di integrazione fra settentrione e mezzogiorno d’Italia, nel quadro delle più moderne esigenze di integrazione fra Europa occidentale continentale ed Europa meridionale mediterranea».

Rispetto a quell’ormai antico rifiuto (alla Eduardo?) della fuga nel folclorico auto-assolutorio, oggi dilaga il “peppiniello” di una stagione rampante, in cui la discussione civile è stata soppiantata dalla chiacchiera sincopata e battutistica da talkshow, la modernità riflessiva cede all’imbonitorio post-moderno; nel caso, il vittimismo ricattatorio del chiagne e fotti. Magari al servizio delle velleità di protagonismi nazionali (et ultra) di un certo governatore campano o di un sindaco napoletano. Al lettore giudicare su quale crinale si collochi il saggio di Esposito; comunque ricco di spunti e big data, a smentire vere o presunte fake news. Purtroppo – per l’autore – iniziando il proprio pamphlet con un incidente di percorso sulla scia di De Luca (“in queste settimane è sembrato capovolgersi i ruoli tra regioni: che i comportamenti più rigorosi venissero dal Sud e qualche momento di ammoina dal Nord” si pavoneggiava costui), dipendente dall’uscita editoriale nel mese di ottobre 2020. Questo perché l’apologia della presunta eccellenza sanitaria campana, contrapposta all’ormai acclarata cialtronaggine dello strombazzato “modello Lombardia” (in una pura logica di puntigliosa rivincita campanilistica), non poteva tenere conto che la “seconda ondata del Covid” del mese successivo avrebbe precipitato nel baratro le strutture ospedaliere partenopee e smascherato livelli di inefficienza – lo diciamo? – “alla milanese”. Del resto come dimenticare le intemerate di rara sguaiataggine del De Luca quando stampa e televisioni (il Mattino di Napoli compreso) mostrarono in tempi pre-Covid le immagini dei pazienti ricoperti di formiche nelle corsie dell’ospedale San Giovanni Bosco, dietro il cimitero di Poggioreale.

Fatto sta che la questione dell’interdipendenza conflittuale Nord-Sud finisce subito per presentarsi come lo scontro di posizioni inconciliabili, all’insegna di contrapposti pregiudizi: da un lato il giustificazionismo ad oltranza di Esposito, che interpreta i ritardi meridionali come effetto di trappole nordiste e letture malevole del contesto, dall’altro la denigrazione pregiudiziale – personificata nell’economista Tito Boeri, con attribuzione del ruolo, di volta in volta, anche a Enrico Mentana e Luca Ricolfi – di chi imputa ogni battuta a vuoto al congenito lazzaronismo. Magari buttandola sul paternalismo come Stella e Rizzo («fa venire il sangue al cervello. A chi ama il Mezzogiorno come noi, ripercorrere le occasioni perdute di ieri e di oggi… Ma che razza di classe dirigente è quella che lascia affondare un pezzo d’Italia»), che, dopo il successo di vendite del best seller “La Casta”, ripropongono lo schema in ambito meridionale; sempre come contrapposizione tra irresponsabili e responsabili. E la metafora Eduardo-Peppino, seri contro ridanciani, si aggiorna in quella dei protagonisti nel naufragio della Costa Concordia, in cui il comandante napoletano della nave Francesco Schettino si precipita sulla prima lancia di salvataggio, abbandonando la nave, ed è napoletano l’ufficiale Gregorio De Falco che lo richiama al dovere, urlando al collega in fuga l’ormai immortale “possiamo farcela, cazzo!” (GS. e SR. Pag.8).

Insomma, una faccenda interna tra sudisti. Ma che Esposito liquida come «riproposizione di un Meridione brutto, sporco e cattivo». (M.E. pag. 226).

Tullio-Altan Vs. De Masi

In realtà la questione è bifronte, con responsabilità di entrambe le parti che vengono da lontano. Tanto per dire, l’alternativa inconciliabile – al tempo dell’unificazione nazionale – in materia di politica industriale: tra la scelta protezionistica indispensabile per la nascente industria settentrionale, sotto minaccia di dumping tecnologico da parte delle più avanzate imprese europee, e quella liberista, a vantaggio dell’economia esportativa di prodotti agricoli del Sud. Nodo gordiano sciolto a vantaggio dei (biechi?) nordisti. Così come resta abbastanza favolistica la rappresentazione idealizzata di un Mezzogiorno pre-unitario all’avanguardia nel progresso tecnologico e industriale, solo per la sempre strombazzata ferrovia Napoli-Portici; che mai un Giustino Fortunato avrebbe accreditato.

Quando siamo in presenza di fenomeni che – Esposito permettendo – vanno retrodatati almeno al tempo dell’arresto della civiltà urbana e delle classi proprietarie nell’Italia della seconda metà del XVII secolo. A suo tempo analizzati da Carlo Tullio-Altan: «la vecchia classe dirigente, venuta meno la sua funzione storica, ne risultò esautorata e ricacciata nella sfera locale, dove le furono lasciate notevoli zone di autonomia amministrativa a spese dell’autorità politica, ormai passata sotto il controllo straniero, spagnolo in particolare. Ma la caratteristica forse più significativa di questa classe privilegiata fu quella del consumo della rendita fondiaria attuato nei centri abitati, che persero quasi del tutto la loro funzione produttiva di un tempo, si ingrandirono – soprattutto nel Meridione – in conseguenza del formarsi di una società parassitaria, composta dalle famiglie nobili o ricche, dal loro servidorame, e da un sottoproletariato composto di artigiani che lavoravano per soddisfare la domanda dei nobili consumatori, e di faccendieri di ogni tipo»[1]. Un insieme socio-economico tenuto unito dal cemento ideologico della Chiesa, mediante le elaborazioni teologiche della Controriforma. Sicché – aggiunge Tullio-Altan – «nello stesso periodo si stavano ponendo le premesse di quello che diventò presto, e rimane ancora, uno dei problemi di fondo della società italiana: il problema dl Mezzogiorno. La polemica meridionalista ha sostenuto a lungo che lo sviluppo industriale del Settentrione avvenne a spese delle regioni meridionali, soprattutto a partire dall’alleanza a livello governativo fra i rappresentanti politici degli agrari meridionali e quelli dell’industria del Nord. […] È chiaro che si trattò di un processo iniziale di sviluppo di un modo di produzione moderno, in concomitanza con la crisi di un diverso e più arcaico modo, incompatibile col primo, il quale aveva le sue basi nella campagna in generale, ma in particolare nella zona del Meridione»[2]. Di seguito, la nascente rivoluzione industriale, con tutti i suoi impatti sulle mentalità collettive, circoscritta all’area nord-occidentale della penisola; per poi espandersi a est e fino al centro del Paese. Ma senza raggiungere il Mezzogiorno, che mantenne immutati i modelli di pensiero e giudizio tradizionali. In particolare il valore-lavoro, che nelle zone industrializzate diventa riscatto proletario e operosità borghese; ma rimane “a fatica” al sud, con tutti i retro-pensieri inerenti. Quel culto dell’ozio connesso all’ideal-tipo del barone latifondista; e relativi simbolismi. Per cui qui il piccolo borghese si lascia crescere l’unghia del mignolo (alla mandarino confuciano) per confermare la propria estraneità alle declassanti attività manuali. Se vogliamo, conferma semiologica spicciola della totale indisponibilità ambientale/culturale a una recezione dell’etica del fare.

Il mood che ritroviamo, in salsa postindustriale, nella costante teorizzazione/apologia del fancazzismo di Domenico De Masi. Oggi declinata nel telelavoro gabellato come smart working, conquista di civiltà e rivoluzione epocale, quando è solo la nuova parcellizzazione del lavoro (dopo quella tayloristica, quella logistica del confinamento/isolamento domestico), che riduce vieppiù la capacità di resistenza contrattuale e organizzativa del dipendente. La perdita di soggettività politica.

Tesi che rimbalza nel giustificazionismo petulante secondo cui, se «le prime Alfasud sono divorate dalla ruggine per ragioni messe in relazione con i continui rallentamenti della produzione per l’assenteismo delle maestranze», la spiegazione non può essere che una sola: «una società a capitale pubblico come l’Alfa Romeo, che apre una fabbrica presso Napoli per ragioni politiche, è percepita dai lavoratori come qualcosa di dovuto, e questo incide sui comportamenti collettivi» (M.E. pag.260). Evviva. Il posto di lavoro come diritto (risarcitorio) al salario e la qualità della prestazione come optional (ricattatorio). Alla faccia dell’etica del lavoro!

Scanso equivoci, chi scrive conosce bene la laboriosità della gente del Sud; e per esperienze diretta: nei suoi trascorsi da padroncino metalmeccanico ricorda che il più apprezzato tornitore dell’azienda si chiamava Carmelo Pititto, un siciliano. La polemica è con gli apologeti dell’ozio, che disarma il lavoro come soggetto politico.

Odio e amore

Tornando al punto, per recepire questi aspetti relativi alle mentalità collettive, più che l’accumulo ragionieristico di cifre, occorrerebbero strumenti esplorativi di matrice sociologica, al limite antropologica. Invece di quell’uso sovrabbondante dei dati che diventano una trappola in cui Esposito rischia di cadere. Vedi la valutazione dello squilibrio nell’erogazione di trasferimenti da parte dello Stato negli ultimi diciotto anni, prima quantificati nella cifra monstre di 840 miliardi di euro (M.E. pag. 73), poi scesi a 420 (pag. 79); ma che invece potrebbero essere 43 (pag. 81). Oppure l’assunto che la spesa italiana totale è sempre a vantaggio del Centronord, per poi scoprire che in materia di giustizia e istruzione i flussi dallo Stato marciano in senso contrario (M.E. pag. 84). O, ancora, l’affermazione ossimorica secondo cui la macchina amministrativa calabrese raggiunge alti livelli di efficienza nella spesa, quando «i servizi garantiti dai comuni calabresi sono pessimi, i peggiori d’Italia» (M.E. pag. 98). Infine, il passaggio dal vittimismo al complottismo, esemplificato nella domanda – a risposta predeterminata (colpa dell’Italia matrigna) – “chi è responsabile di aver declassato la sua città principale” (M.E. pag. 150), ovviamente Napoli? Quesito che potrebbe trovare risposta esaminando fenomeni endogeni come il Laurismo o il Doroteismo (Gava Style), per non parlare del secolare radicamento camorristico, che non sembrano aver trovato anticorpi nel territorio. Tantomeno aver suscitato rigetto.

Come dare torto a Esposito se denuncia i mancati investimenti, gli effetti perversi del federalismo fiscale, lo scandalo dei fondi europei usati per sostituire la spesa ordinaria, la proposta devastante dell’autonomia differenziata, il deficit infrastrutturale che si rinnova in un circolo vizioso. Ma dove il suo ragionamento s’inceppa è quando scivola nel complottismo configurando una sorta di Spectre nordista. E non tiene in adeguato conto dell’incapacità del Mezzogiorno di far valere i propri legittimi interessi contrappesando quelli altrui, stante l’assenteismo colpevole dei suoi rappresentanti nelle sedi decisionali. Per cui – francamente – la denuncia finisce per suonare a esercizio demagogico per blandire attitudini vittimistiche.

A volte si ha l’impressione che il pensiero meridionalista in genere sconti, nei confronti dell’Italia presunta vincente, una sorta di vassallaggio psicologico. Da ospite in casa d’altri. Che tale casa tende a idealizzare (ci ritorneremo).

Un innamorato deluso che attenderebbe la salvezza dal raggiungimento dell’impareggiabile modello, così come gli europeisti repubblicani alla Ugo La Malfa ritenevano che l’intero Bel Paese potesse evitare di precipitare in mare aggrappandosi alla corona alpina. L’idea sempre perniciosa che esista solo una best way per l’auspicato obiettivo di ricongiungere i due spicchi della mela italiana, finalmente saldati da una compiuta integrazione.

Questo mi riporta agli anni lontani della giovinezza, quando discutevo con gli allievi di Pasquale Saraceno allora ai vertici dell’Italsider (l’azienda leader nella mia città, Genova), e li facevo infuriare criticando il modello di fuoriuscita dai ritardi del modello economico a Sud attraverso un’industrializzazione di base, siderurgica. Quel ruolo “strategico” della Cassa del Mezzogiorno che Esposito rimpiange (M.E. pag. 215). Impostazione nordista, supinamente recepita dalla cultura sudista, che non si è mai posta il problema della metabolizzabilità di tale modello da parte del genius loci. E che – di fatto – ha prodotto inevitabili effetti di rigetto. Come constatai direttamente, anni dopo per ragioni di lavoro, nell’inferno dantesco dell’acciaieria di Taranto. Dove il più che ingente investimento pubblico non aveva creato traccia di indotto industriale, bensì il fiorire di micro iniziative commerciali (in linea con l’ethos mercantile tipicamente barese) per forniture varie a prezzi gonfiati. Un po’ come nel fallimento – per quanto riguarda la fertilizzazione di territorio – «della Fiat a Termini Imerese, che allo Stato costò 4 miliardi e mezzo di euro ma che, secondo il sociologo industriale Luciano Gallino, al di là degli errori e degli egoismi dell’azienda torinese, ‘poteva reggere soltanto se in Sicilia si fosse sviluppato un adeguato distretto della componentistica’ e cioè se intorno allo stabilimento con i 3000 addetti negli anni d’oro ci fosse stato un formicaio di fabbriche, fabbrichette e laboratori col triplo di lavoratori. Cosa che sventuratamente non è successa» (G.A.S.&S.R. pag. 299). Appunto, puro illuminismo astratto applicato allo sviluppo (e, anche in questo caso – come detta l’adagio popolare – ce n’è per l’asino e per chi lo mena).

Quando – semmai – esistevano ben altri esempi da recepire: l’industrializzazione dell’agricoltura, come nel sud degli Stati Uniti, la managerializzazione del turismo, come nel caso francese…

Quindi – quella seguita – una strada che ha fatto perdere tempo e prodotto cattedrali del deserto, ma anche un consistente flusso di denaro andato disperso.

A proposito del quale, come in mille altri casi, non è lecito giocare a scaricabarile e omettere le responsabilità delle classi dirigenti autoctone, soprattutto politiche, (oltre alle complicità del corpo elettorale che le ha premiate).

E qui – accertato che la questione è di cultura/mentalità, non genetica (vivaddio!) –occorrerebbe ricorrere al concetto di capitale sociale che Esposito liquida con sufficienza: «cosa sia questo capitale sociale non è ben chiaro» (E.M. pag. 83). Visto che è l’acquisizione di un vasto dibattito – di cui Pierre Boudieu e la voce francese e James Coleman l’americana – rimbalzato tra le due sponde dell’Atlantico, che nel corso degli anni Ottanta e Novanta ha favorito l’evoluzione del tema general-generico di “capitale umano” nella tripartizione economica-culturale-sociale/relazionale; in cui «si vuole mostrare come le scelte economiche non siano influenzate solo dalla disponibilità di risorse economiche, ma anche di quelle sociali, in particolare le reti di relazioni»[3]. Muovendosi in due direzioni: verso il rapporto interpersonale come “risorsa per l’azione” (James Coleman e – appunto – Bourdieu); come “fiducia che produce civicness” per analizzare il rendimento delle istituzioni (Robert Putnam). Secondo Alessandro Pizzorno, una struttura teorica derivata da quattro fonti: «interiorizzazione di valori, scambi di reciprocità, solidarietà collettiva (‘sentimento di noi’, coscienza di classe, di comunità e simili), fiducia imposta ottenuta attraverso ricompense o sanzioni emanate da un gruppo»[4]. Insomma, Èmile Durkheim, Georg Simmel, Karl Marx e Max Weber. Ma in una logica che possiamo individuare nelle ricerche sul rapporto sviluppo/sottosviluppo avviate sul campo (il Sud Italia) dai politologi americani (La Palombara, Putnam) già negli anni Cinquanta; con la pionieristica acquisizione del criterio analitico “familismo amorale” da parte di Edward Banfield in Basilicata.

Agli spregiatori di tali chiavi interpretative andrebbe ricordate l’istruttiva metafora di Alexis De Tocqueville, mentre esplorava la democrazia in America: &ldq
uo;quando in un villaggio di Francia i contadini si rendono conto che occorre una scuola, si riuniscono in assemblea e inviano una petizione a Parigi. Quando i coloni del New England scoprono la stessa esigenza, si riuniscono in assemblea e si dividono i compiti… per costruirla, la scuola”. Plastico esempio di «comunità civica, ovvero il tessuto sociale in cui si intrecciano l’impegno socio-politico e la solidarietà»[5].

Questo per dire che un minimo di attenzione al precetto “aiutati che il ciel ti aiuta” andrebbe manifestata come strategia di riscatto. Ma è lo stesso Esposito a riconoscere che «i meridionali non sono sufficientemente coesi e pronti a far valere i propri diritti» (M. E. pag. 191). Per cui non avrebbe troppo titolo a indignarsi se Stella e Rizzo si permettono di far osservare che nell’immensa dissipazione dei fondi (63mila miliardi di lire) destinati alla ricostruzione dell’Irpinia terremotata, il presidente del Consiglio del tempo era l’irpino Ciriaco De Mita, «alle finanze c’era il lucano Emilio Colombo, all’interno il napoletano Antonio Gava, al Mezzogiorno l’abruzzese Remo Gaspari, alla funzione pubblica il napoletano Paolo Cirino Pomicino, agli affari sociali la napoletana Rosa Russo Iervolino, alla protezione civile il barese Vito Lattanzio, al Lavoro il pugliese Rino Formica, all’Agricoltura il siciliano Calogero Mannino, ai Beni culturali la trapanese Vincenza Bono Parrino e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio era il calabrese Riccardo Misasi» (G.A.S e S.R. pag. 102). Un po’ la storia narrata nel Gattopardo del principe Fabrizio di Salina che declina l’offerta di un seggio al Senato del Nuovo Regno a favore di Calogero l’affarista, futuro suocero di suo nipote Manfredi? Fatto sta che pochi anni dopo, agli albori della “questione settentrionale”, un rozzo studente fuori corso di Cassano Magnago nel Varesotto – il futuro senatur Umberto Bosi – inventava nella Lega lo strumento che avrebbe scardinato, con le lotte che partivano dal basso, il meccanismo per tenere a bada i cittadini denominato CAF; proprio nel suo punto di massimo insediamento: quella Milano dei cosiddetti craxatori, dove si sarebbero create le condizioni per la rivoluzione civile di Mani Pulite (poi abortita, per una reazione partitocratica che non escluse truppe cammellate sudiste).

Se poi – sempre nella logica della petizione a Parigi – si imputa l’analfabetismo diffuso al Sud come colpa della trascuratezza nazionale, mentre per i Borboni, che hanno coltivato a lungo questa piaga, si tratterebbe solo di “un errore” (M.E. pag. 229), forse si dovrebbe prendere in considerazione la tesi che spiega il fenomeno come la tipica mossa difensiva delle élites dominanti in una società a prevalente economia latifondista per mantenere le masse contadine in una condizione subalterna e spegnerne sul nascere le pulsioni ribellistiche. E, visto che Esposito manifesta il suo apprezzamento per il best-seller di Acemoglu e Robinson Perché le nazioni falliscono, andrebbe ricordato che i distinti autori iniziano la loro analisi affermando che «nazioni come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti sono diventate ricche perché i loro cittadini hanno rovesciato le élite che controllavano il potere»[6]. Mica prediche disarmate. Tesi ribadita nel saggio successivo, apparso quest’anno sui percorsi di liberazione delle nazioni, parlando di «emancipazione da ogni subordinazione». Il termine esatto sarebbe “conflitto sociale”[7], che però risulterebbe troppo urticante per saggisti da establishment.

L’Italia? È tutta Terronia

La frase spia di un retro-pensiero che – come si diceva – idealizza l’esecrato Nord colonialista, è quella con cui – a proposito del pessimo uso fatto dei fondi europei – si lamenta il fatto che «il Mezzogiorno è privo di una sua propria strategia» (M.E. pag. 152). Ebbene, Esposito sa indicare un tema o una situazione in cui il nostro sistema-Paese, vocato al vivere alla giornata, ha dato segni di attitudine strategica?

Con questo ci permettiamo sommessamente di osservare che anche il nostro autore ragiona come quei “napoletani da cortile” che tanto disprezza («Malcom X definiva ‘negri da cortile’ gli schiavi che adoravano il proprio padrone. I napoletani da cortile sono quelli che ne assorbono i pregiudizi e ne diventano i portatori») (M.E. pag. 210)). A partire dal mito Milan l’è un gran Milan. Ma quando? Ma dove? Questa città che ha smarrito da tempo il senso di marcia: non è una grande piazza borsistico-finanziaria come Londra o Francoforte, non è più industriale e se è post-industriale lo è solo per la speculazione immobiliaristica, non è il polo fieristico del Sud Europa perché lo scettro è saldamente nelle mani di Monaco di Baviera. Allora? Allora faccio mie le parole di Alessandro Robecchi, un giornalista con marcate attitudini sociologiche «Dalla metà degli anni Ottanta, la favola fasulla della “Milano da bere” ha nascosto, se non cancellato le rughe della città, e Milano è rimasta per più di trent’anni impigliata in un racconto unidimensionale: la moda, il design, i grattacieli, le eccellenze, i soldi. Solo luci, e delle ombre vietato parlare. Tutti ricchi, tutte modelle, tutti designer: la percezione di Milano nel resto del Paese (considerato miseramente Italia, mentre qui siamo in Europa, ossignùr) è stata questa, per anni, per decenni. Innaffiata, e concimata, e ideologizzata, tanto che bastava dubitarne o storcere il naso (si ricordino i dubbi su Expo) per essere accusati di disfattismo, di pessimismo che fa male agli affari. Intanto, quando piove, un paio di quartieri si allagano (problema trentennale e anche più), i sanitari devono trasferire in tutta fretta malati Covid ad altre stanze, meno allagabili, e il lockdown, con la città spaventata e zitta, ha rivelato un esercito di schiavi, cottimisti pedalatori che le consegnano il cibo a domicilio, 2 euro e spiccioli a recapito. Essendoci in giro solo loro per due mesi, Milano ha potuto vedere i suoi lavoratori poveri, resi visibili dallo spegnersi dello scintillìo. I costruttori di leggende ‘ sempre funzionali al mercato, ovvio’ non hanno fatto un buon servizio a Milano, hanno semmai il torto di averla trasformata in macchietta[8]». Lo stesso vale per tutti – il Nord Ovest e il Nord Est – ormai privi di modelli di sviluppo: Torino non più factory town dopo l’abbandono della Fiat/Fca, il Veneto alle prese con la fine del paradigma distrettuale, la Liguria in cui i comuni del Ponente vengono chiusi per penetrazioni mafiose e crollano i ponti, l’intera Padania, terreno di caccia dei ndranghetisti ripuliti e in flanella grigia.

Del resto l’intera composizione sociale è cambiata dai primi anni Cinquanta del secolo scorso. E tutto il settentrione si meridionalizzava, a partire da Milano.

Roba che scrivevo su MicroMega già vent’anni fa: «Milano è città dalle valvole aperte; sia ai processi di mobilità interna, sia ai flussi dall’esterno. Ma questo filtro a griglie larghe, nei primi anni Sessanta, viene ingolfato da una vera e propria serie di ondate. Da un lato, la ‘carovana dei mormoni’. I milioni di uomini e donne che, in quel periodo, risalivano il sentiero della speranza dal Sud (per lo più) e dall’Est verso il Nord-Ovest, dirigendosi prevalentemente verso il capoluogo lombardo. Nello stesso tempo, i rivoli dalle valli prealpine che giungevano a ingrossare un fiume già in piena. Gli equilibri milanesi ne sono stati travolti. Inserendosi in un’area dove la cultura di una moderna società industriale era diffusa ma debole (nel senso di ‘mite’, cioè poco attrezzata a imporsi, male strumentata a difendersi), i nuovi arrivati recavano con sé i modelli di comportamento di una società contadina, fortissimamente interiorizzati. Resi irriducibili dalle inevitabili difficoltà dell’inserimento in una realtà sconosciuta. La contrapposizione della solidarietà chiusa tra consanguinei/affini (e dei modelli organizzativi conseguenti) alla solidarietà aperta e razionale della cittadinanza.

Il contrasto tra la debole mitezza valoriale delle classi dirigenti (della milanesità tout court) e l’inattaccabilità ai solventi critici dei sistemi di rappresentazione provenienti dall’esterno, spiega perché – nel corso dell’assimilazione – la città non ha svolto un’adeguata pedagogia. Sicché, da un lavorio sommerso di miscelazione durato un decennio, emergono i ‘milanesizzati’ (e le maschere e i cantori della ‘nuova Milano’ sono in larga misura meridionali inurbati: Jannacci, Abatantuono, Celentano…). La città si meridionalizza, fungendo da levatrice a una nuova figura sociale con forti e profondi tratti delle società arretrate di provenienza. Un soggetto che ha fatto propri manierismi e ritualità milanesi, ne apprende il dialetto. Al limite, ne acquisisce le retoriche senza mai perdere l’ansia pre-moderna (baronale, spagnolesca o – più semplicemente – rurale) del prestigio da status; non interiorizza il significato del ruolo in una società meritocratica e non castale. Una società civile per nulla tracotante per autostima è disarmata davanti all’aggressività vitalistica: il melting pot non funziona perché il contenitore non era temperato a sufficienza per reggere al calore della fusione. Venuta meno la funzione pedagogica (i diritti/doveri in una società articolata e complessa) e quella didattica (i modelli di comportamento in un moderno capitalismo), il trovarsi al centro del più ricco crocevia italiano si traduce, per i nuovi arrivati, nella corsa acquisitiva di beni doviziosi, degli status symbols del successo che splendono nelle vetrine di una realtà percepita come puro mercato allocativo di risorse materiali (non come macchina produttiva e organizzativa). Nella tradizionale bonomia meneghina del benessere interiorizzato come normalità, si diffonde quella nuova, nervosa, attitudine al consumo dimostrativo e vanitoso che segnerà un’intera stagione cittadina: quella della ‘Milano da bere’. Riprendendo una battuta di Maurice Bejart: ‘Credevano di ricreare uno stile Versailles e si ritrovano con uno stile Versace’. […] Sprovvisti di adeguate categorie, i milanesizzati apprendono le tecniche dell’efficienza e la sensibilità alle nuove opportunità, non i retrostanti principî civili. Dunque, vanno all’attacco per emergere utilizzando le immense opportunità della società moderna, armati di una tecnologia del potere, rudimentale quanto efficacissima, distillata da secolari accortezze adattive nel neurovegetativo dell’autorità (il Palazzo). Dal ribollire sociale nel crogiolo fallato di quegli anni, balzano sulla scena i personaggi ambigui di una fusione mai giunta a compimento: gli yuppie del sottobosco finanziario e del tricchetracche comunicazionale, i rampanti, Bettino
Craxi…»[9].

Per dirla con il lessico di Esposito, tutta l’Italia ormai è Terronia. Nella povertà che si diffonde, nella sanità pubblica al lumicino, dopo la cessione ai privati dei suoi pezzi pregiati, nel collasso della mobilità urbana ed extraurbana, senza investimenti e senza manutenzioni, nel sistema educativo che precipita nelle valutazioni del PISA e l’università scivola nelle posizioni di coda dei ranking internazionali, l’inflazione delle eccellenze presunte mentre le nostre antiche vocazioni manifatturiere si restringono: almeno dal 2000 si allarga la forbice tra l’Italia manifatturiera e il resto del Mondo; un settore che si è espanso complessivamente del 36,1%, mentre qui da noi si restringeva del 25,5%[10].

E allora? All’esaurimento inglorioso e non di rado osceno della quarantennale stagione NeoLib, tra i rari lasciti che si possono salvare c’è la cinica (ma veritiera) battuta di Milton Friedman “nessun pasto è gratis”. E nelle faccende della Modernità questo prezzo da pagare si chiama “conflitto sociale”.

Purtroppo, nell’Italia sfinita e fatalistica, che ha vanificato nella banalizzazione sovrapposta “questione meridionale” e “questione settentrionale”, non è dato di scorgere energie antagonistiche che rimettano in campo dinamiche conflittuali.

La “bellezza della lotta” cara a Luigi Einaudi.

Solo prediche disarmate e ultimi assalti ai forni; dalle Alpi al Lilibeo.

NOTE
[1] Carlo Tuttlio-Altan, Modi di produzione e lotta di classe in Italia, ISEDI, Milano 1979 pag. 39

[2] Ivi pag. 53

[3] C. Trigilia, Il capitale sociale, il Mulino, Bologna 2001 pag. 9

[4] A. Pizzorno, “Per una teoria del capitale sociale”, Stato e Mercato 3/1999

[5] Robert D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993 pag. 97

[6] Daron Acemoglu e James A Robinson, Perché le nazioni falliscono, il Saggiatore, Milano 2012 pag. 14

[7] Daron Acemoglu e James A. Robinson, La strettoia – come le nazioni possono essere libere, il Saggiatore, Milano 2020 pag. 26

[8] Alessandro Robecchi, “La capitale morale adesso aspetta un discorso diverso”, Il Fatto quotidiano 20 maggio 2020

[9] P. Pellizzetti, “Antropologia del Craxismo”, MicoMega 3/2000

[10] Centro Studi Confindustria, Scenari industriali, “La manifattura si restringe nei paesi avanzati”, 4.06.2014
(21 dicembre 2020)
 

 


 




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