Il ministro Lorenzin e il “prestigio sociale della maternità”
Maria Ruggeri
Sono in viaggio di lavoro. Tra una mail e l’altra, sfoglio distrattamente “La Freccia”, la rivista di Frecciarossa, a pagina 95 del numero di settembre mi imbatto in un articolo sul Fertility day firmato da Beatrice Lorenzin. Tra tutto, mi colpisce una frase: “la parola d’ordine sarà scoprire il prestigio sociale della maternità”. Sobbalzo sul sedile. Rileggo. C’è scritto proprio così: prestigio sociale della maternità.
Sono madre di due splendidi ragazzi (come potrebbe essere altrimenti?). Li cresco sola, tra orgoglio e fatica, zigzagando nervosa tra impegni di un lavoro che amo e responsabilità di madre. In più, lotto ogni giorno, con il mondo e con me stessa (e i miei sensi di colpa) per non rinunciare a essere donna, individuo, con i miei interessi e le mie passioni. Beh, vi assicuro che mai, ma proprio mai, mi è capitato di imbattermi in qualcosa di simile al prestigio sociale della maternità.
Il prestigio sociale, nei miei 10 lustri scarsi di vita, l’ho conosciuto personalmente per i successi scolastici e lavorativi. L’ho riconosciuto, intorno a me e sui media, riferito sempre (o quasi) a cose come il denaro, il potere, l’eccellenza professionale o, al massimo, qualche gesto eroico nel sociale che di tanto in tanto richiama la coscienza collettiva al valore più profondo della nostra comune umanità. Mai, dico mai, l’ho visto attribuire alla maternità e alla paternità, per quanto ormai si possano considerare scelte eroiche, o autolesioniste (a seconda dei punti di vista).
No Ministro. Non c’è alcun prestigio sociale da scoprire. Quello che manca è una scelta chiara da parte del Governo (dei Governi). Se la denatalità è un problema per il Paese, se pone diverse “problematiche sociali, pensionistiche, sanitarie” come dice lei, ovvero economiche, come traduco io, serve capire se – tra i vari problemi del Paese – rappresenta una priorità sulla quale si vuole intervenire, investendo e lavorando per invertire il fenomeno, non certo richiamando le donne a un presunto “dovere di procreare” per il bene comune.
C’è da investire, e da lavorare, sull’effettività di un diritto a un lavoro dignitoso. A questo proposito vale la pena di ricordare che, nel 2015, il 45,9% delle italiane, pur essendo in età da lavoro era fuori dal mercato, con un tasso di inattività di 20 punti superiore a quello degli uomini (il divario peggiore nell’Unione europea dopo quello di Malta).
Servono flessibilità esigibili per i genitori che lavorano, e per esigibili intendo che il fruirne non deve mettere a rischio il posto di lavoro.
C’è da investire, e da lavorare, sugli asili e sugli orari scolastici, da allineare alle richieste di un mercato del lavoro sempre più avaro ed esigente, per permettere ai genitori che lavorano di non essere costretti a un defatigante slalom organizzativo tra tempi pieni, tempi integrati, accoglienze pre-scuola, riunioni con gli insegnanti convocate all’ultimo minuto in orario lavorativo, richieste di soccorso ai nonni, conflitti sul posto di lavoro e chi più ne ha più ne metta.
Non ci sono i soldi? Ci sono altre priorità più prioritarie? E allora, per favore, non facciamo “pubblicità progresso”, non spendiamo un euro per tentare di scoprire un prestigio sociale che non esiste e che, mi permetto di dire, neppure serve.
Maria Ruggeri
(21 settembre 2016)
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