“Il mio cinema tra realtà e impegno”. Intervista a Jonathan Demme

Barbara Sorrentini

Un regista anomalo, con un percorso ricchissimo e interessante e che tutti hanno incontrato almeno una volta al cinema. Se si dice Jonathan Demme basta aggiungere Il Silenzio degli Innocenti per capire immediatamente di chi si stia parlando. La storia di Hannibal Lecter e della poliziotta Clarice Starling ha terrorizzato più di una generazione, ma oltre agli Oscar ricevuti per questo film perfetto Demme vanta una filmografia che saltella da opere più commerciali, Philadelphia, Qualcosa di travolgente, The Manchurian Candidate o The truth about Charlie a documentari sentiti e necessari, come il drammatico e rabbioso The Agronomist, i film concerto su Neil Young, l’indipendente Rachel sta per sposarsi e il recente I’m Carolyn Parker, sulla vita straordinaria dell’ultima donna che lasciò New Orleans dopo il passaggio dell’uragano Katrina. Ospite d’onore del Milano Film Festival, con una retrospettiva completa che ha portato per la prima volta in Italia anche pellicole mai viste e l’anteprima di Neil Young Journeys, Jonathan Demme ha vissuto per quasi una settimana tra sale cinematografiche e strade cittadine senza mai sottrarsi a domande, strette di mano e incontri con il pubblico.

Un percorso produttivo affascinante il suo. Da Il Silenzio degli Innocenti, tra i film più commerciali, senza perdere di vista gli aspetti politici e sociali degli Stati Uniti e delle storie che racconta. E poi i documentari autoprodotti, come The Agronomist o quelli su Neil Young. Come alterna il suo lavoro?
Ho sempre avuto una passione per il cinema di finzione già da ragazzo, e poi una passione che ha cominciato ad attanagliarmi più avanti per i documentari. Mi piace molto catturare l’aspetto drammatico della vita reale, senza il bisogno di romanzarlo e ammantarlo di finzione o di artificio di qualunque tipo. Credo che il documentario sia un importante e valido strumento espressivo, ha la stessa importanza e lo stesso valore che ha un film di finzione. Quando si riesce a combinare, come nel caso di Philadelphia, una tematica reale e un’urgenza sociale in un film di finzione, si ha in mano uno strumento molto valido e convincente. Lo stesso accade quando ti trovi a scoprire una vita e un evento drammatico come quello di Jean Dominique, giornalista e contadino, voce libera e scomoda contro la schiavitù, ammazzato dagli uomini del dittatore Aristide e che ha dato origine a The Agronomist. Anche lì il materiale è potente e fastidioso. Il pubblico in generale tende a preferire il cinema di finzione, io da spettatore amo sempre anche i documentari, li sostengo anche se purtroppo è impossibile vivere di soli documentari, si guadagna troppo poco nel farli.

Com’è cominciata la sua amicizia con Neil Young?
Ci siamo incontrati quando gli proposi di comporre una canzone per Philadelphia e da allora ho iniziato a seguire tutti i suoi concerti. Ricordo in particolare quello a Greendale su cui Neil Young mi aveva invitato a fare un film. Io però stavo preparando The Manchurian Candidate e in quel momento non avevo la possibilità di realizzare il documentario, ma appena ho finito il mio film l’ho chiamato e il risultato è stato Heart of gold. Quello è stato il primo lavoro su e con Neil Young ed è stato anche l’inizio di una bellissima collaborazione. Mi piace quello che dice Neil quando gli chiedono del rapporto tra di noi e lui risponde: “abbiamo un’ottima intesa e ci rispettiamo reciprocamente, lui adora la musica e io adoro il cinema”.

Anche Neil Young ha fatto un film come regista, sotto lo pseudonimo Bernard Shakey.
Adoro i film di Bernard Shakey, ma aldilà di questo pseudonimo per fare il cineasta, Neil è davvero molto cinematografico in tutto quello che fa, nei suoi movimenti, nelle sue espressioni, nelle sue esecuzioni; è quasi naturale che facesse anche dei film. Questo è uno dei motivi per cui è così stimolante stare in sua compagnia. Credo sempre di sapere a che cosa stia pensando e sicuramente lui sa sempre cosa sto pensando io.

Il tema della colonna sonora di Philadelphia e di Bruce Springsteen, non ha mai pensato di fare un documentario su di lui?
Sono anni che cerco di convincere Bruce Springsteen a dirigere un film, che io produrrei, su Asbury Park. Non solo è il suo territorio, da cui lui trae origine, ma è anche una città che simboleggia tutto quello che si può fare di sbagliato nella creazione di una città negli Stati Uniti. Penso che lui sarebbe un regista straordinario nel dirigere un film di questo tipo e il risultato sarebbe meraviglioso. Potrebbe essere fatto di materiali d’archivio sulla città, con altri di girato per raccontarla com’è oggi, potrebbe esserci qualche sua esecuzione dal vivo e Bruce potrebbe comporre la colonna sonora di questo film. Sono convinto che Springsteen e Neil Young siano persone molto creative, cinematografiche e anche la loro espressione potrebbe essere versatile. Mi piacerebbe un documentario non sulla sua vita, ma sul suo messaggio e sulla sua essenza.

Quanto ha influito nel suo percorso registico e produttivo la vincita degli Oscar?
Devo ammettere che l’Oscar ti cambia la vita. Innanzitutto la città in cui vivi improvvisamente diventa orgogliosa di te e poi, nel mio caso, mi è servito molto per aumentare la fiducia in me stesso. Ho passato molti anni della mia vita a chiedermi cosa stessi facendo, se sarei mai riuscito a combinare qualcosa di buono nel cinema e ricevere un Oscar mi ha dato sicurezza. Ed è un premio che va condiviso con tutti quelli che hanno contribuito alla realizzazione di quel film ed è bello perché diventa un’esperienza comune e partecipata.

C’è chi si monta la testa.
Certo un successo così grande offre una sorta di potere, relativo, che io ho riscontrato grazie a Il Silenzio degli Innocenti. Ma questo potere mi ha dato anche la libertà e la capacità di parlare di ciò che volevo. Ho scelto di fare Philadelphia, un film sull’AIDS e sull’omofobia e poi nei film successivi ho parlato di razzismo e di meccanismi politici corrotti.

Cosa pensa dell’America oggi, in questo momento storico?
Vedo l’America come un paese molto spaventato, confuso e in rotta di collisione con se stessa. Però vedo anche una nuova generazione, quasi prossima alla maggiore età, molto determinata e sulla quale ripongo tutte le mie speranze, penso che loro possano davvero fare la differenza. Negli ultimi cinque anni e mezzo, mentre lavoravo al mio ultimo documentario I’m Carolyn Parker, ho notato due cose: una è stata l’inefficienza totale e assoluta del governo Bush nei confronti del disastro a New Orleans e che si è anche ripercossa sull’amministrazione Obama. Tutta questa disorganizzazione mi ha provocato un’immensa rabbia, nel constatare come un cattivo governo abbia un impatto negativo sul territorio. L’altra invece positiva, è stato scoprire che su quella zona c’è stata una generazione di giovani e studenti che venivano da tutto il paese, che hanno deciso di trascorrere il periodo di vacanza, primaverile o estivo, andando ad aiutare la gente a ricostruire le proprie case. Indossando le maschere anti gas, prendendo in mano la pala e la zappa per dare il loro contributo alla popolazione per rialzarsi. Questo è l
o spirito che noi affidiamo alla nuova generazione con cui è possibile un’America diversa.

(21 settembre 2011)

Condividi Bookmark and Share



MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.